Non siamo certo dalle parti di Parasite, ma nell'esordio alla regia di Jeong Ji-hye sono ancora gli ultimi i protagonisti della narrazione. Nella recensione di Jeong-sun, opera prima di Jihye Jeong e Gran Premio della Giuria alla Festa del Cinema di Roma, proveremo a raccontarvi come la regista coreana sia riuscita a firmare un film lucido e spietato, un ritratto sociale che parla di body shaming e revenge porn nel mondo contemporaneo, dominato dal mito dell'eterna giovinezza e della perfezione assoluta. Peggio se la vittima è una donna della classe operaia coreana, in un paese ancora profondamente ancorato a vecchie logiche maschiliste e di sfruttamento.
La denuncia sociale
Il quadro che viene fuori da Jeong-sun è davvero poco consolatorio, salvo virare poi verso un percorso di rinascita che lascia trapelare qualche speranza. Siamo ancora una volta dalla parte degli ultimi laddove le storie sul grande schermo diventano strumento di denuncia sociale, pratica cara a quella fetta del cinema coreano che vive all'ombra dell'industria di genere (dal meno noto Han Gong-ju del 2013 al recente e più celebre Parasite passando per The Housemaid o Pietà). Questa volta si parla di crimini sessuali digitali, fenomeno in ascesa in Corea del Sud, dove la disparità di genere e le risposte spesso inadeguate o tardive da parte dello Stato finiscono per infierire ulteriormente sulle vittime già provate dallo stigma sociale subito in seguito alla violenza digitale. La giovane regista affronta la tematica con rigore, precisione e una buone dose di coraggio ad affidarsi di fatto una narrazione semplice e lineare che si riflette anche nelle scelte stilistiche.
Ma è proprio la semplicità il punto di forza di questa storia, il dramma di un'operaia di mezz'età Jeong-sun (Kim Geumsoon), una donna single e solitaria con una figlia che sta per sposarsi. Una vita senza eccessi scandita dai turni di notte in una fabbrica alimentare e da qualche pranzo con i colleghi; almeno fino a quando finisce per avere un flirt con uno dei nuovi arrivati, un ex operaio edile acciaccato e malconcio, cacciato dal lavoro precedente per le sue ginocchia ormai malandate, deriso e bullizzato dal caporeparto e dai colleghi più giovani. In uno dei loro incontri clandestini, Jeong-sun, poco avvezza all'universo digitale, si lascerà riprendere dal cellulare di lui mentre canta in slip e reggiseno; un'ingenuità che le costerà caro. Per dimostrare che vale ancora qualcosa infatti, penserà bene di condividere con loro quel video, che una volta in rete diventerà virale. Per la donna è l'inizio di un incubo che la farà sprofondare in uno stato depressivo, mentre sua figlia cercherà di far rimuovere il video e denunciare il fatto.
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Il mondo operaio, la cyber-violenza e il desiderio di vendetta
Lo sguardo di Jihye Jeong si tiene alla giusta distanza mentre entra nei piccoli rituali quotidiani che caratterizzano la vita della protagonista, figura femminile inconsueta: una donna nella prima parte del film mite, leggera e ingenua, preoccupata solo che sua figlia compri un bell'abito da sposa, determinata, dura e audace, addirittura sfrontata, nella seconda. Tutto intorno si muove un mondo ai margini cristallizzato da alcune scene: la barbona che Jeong-sun incontra ogni notte all'angolo della strada fuori dal motel dove consuma una liaison amorosa da nascondere, i soprusi e le prevaricazioni subite dal caporeparto, le case modeste della working class, il torpore delle albe di fine turno, il maschilismo strisciante, gli abusi.
Un'ambientazione che contribuisce a definire la quotidianità in cui si muovono i personaggi: l'entrata e l'uscita dalla fabbrica, i rumori di fondo, lo sferragliare delle macchine alla catena di montaggio. A questo si aggiunge il progressivo e lento isolamento della protagonista vittima di un sopruso probabilmente destinato a rimanere senza colpevoli, perché si sa "il denaro può risolvere tutto", non prima però di averle concesso quantomeno la possibilità di esplodere in un ultimo gesto di ribellione, liberatorio e catartico. Forse sarà l'unica forma di riscatto a cui potrà aspirare, ma tanto basta per darle la forza di ricominciare.
Conclusioni
Concludiamo la recensione di Jeong-sun ribadendo il nostro apprezzamento per un’opera prima che conferma la vitalità di un cinema, quello coreano, capace di regalarci delle belle sorprese tanto nel genere quanto nell’autorialità. Puntuale, lucida, precisa nella narrazione la regista si tiene alla giusta distanza ed entra nella quotidianità di una donna di mezza età riprendendone i gesti e i piccoli rituali, dal lavoro in fabbrica a qualche sparuto momento di leggerezza. Il caso di cyber-violenza diventa il pretesto per raccontare un mondo fortemente dominato da vecchie logiche maschiliste e di sfruttamento.
Perché ci piace
- Lo sguardo rigoroso con cui la regista racconta un caso di cyber-violenza.
- La denuncia sociale e l’attenzione ai dettagli che definiscono l’ambientazione.
- La descrizione del mondo operaio fatto di miserie quotidiane e soprusi.
Cosa non va
- Alcuni passaggi potrebbero risultare forzati.