Jean-René (Benoit Poelvoorde) e Angélique (Isabelle Carré) sono entrambi appassionati di cioccolato: direttore di una piccola fabbrica sull'orlo del fallimento l'uno, talentuosa confezionatrice di cioccolatini l'altra, hanno però in comune una caratteristica ancora più significativa, ovvero la spiccata emotività. E se lei cerca di superare il proprio problema frequentando coscienziosamente le sedute degli Emotivi Anonimi, lui ricorre a ben più classiche sedute di analisi. Sarà proprio obbedendo ai suggerimenti medici che Jean-René si ritroverà a invitare a cena Angélique, e, inaspettatamente, la serata che entrambi immaginavano dovesse risolversi in un disastro completo si rivelerà solo il preludio ad un'attrazione travolgente, magari persino in grado di sconvolgere l'universo dominato da angoscia e disillusione in cui entrambi si sono rifugiati. Alla sua prima esperienza con la commedia, Jean-Pierre Améris dimostra che il giusto grado di ironia può alleggerire, senza ridicolizzare, un problema più comune di quanto non si creda e che, proprio nel mondo del cinema, miete tante vittime illustri: tra cui lo stesso regista francese, che si è confessato nel corso di una piacevole chiacchierata con la stampa.
Il film contiene elementi autobiografici? E come mai hai scelto una chiave così ironica? Jean-Pierre Améris: Il film è molto autobiografico, io stesso ho frequentato, a partire da dieci anni fa e per due anni, gli Emotivi Anonimi. Ho appreso dell'esistenza di questo gruppo da un giornale, e sono quasi certo che esista anche in Italia. Funziona secondo lo stesso principio degli Alcolisti Anonimi, o dei gruppi dedicati ai sex-addicted, o dei Debitori Anonimi: serve ad aiutare chi partecipa ad uscire da questa difficoltà. Dieci anni fa la mia timidezza, la mia angoscia stavano diventando un vero e proprio handicap per me: rifiutavo gli inviti a cena, addirittura ai festival avevo grosse difficoltà a partecipare ai cocktail perché, vista la mia altezza, sarei stato immediatamente notato. Ovviamente quando ho iniziato a frequentare il gruppo non immaginavo certo che ne avrei realizzato un film. Ma la cosa che più mi ha commosso di quell'esperienza è che a frequentare gli Emotivi Anonimi sono persone di ogni età, di ogni estrazione sociale: ad esempio ci sono tantissimi uomini d'affari, che immaginiamo sicuri di loro stessi, abituati al comando, che invece hanno grandissime difficoltà a parlare in pubblico, e che quando lo devono fare si inventano ogni genere di scusa per evitarlo. Ho visto anche tante belle ragazze che dicevano di avere una vita sentimentale disastrosa perché agli appuntamenti arrossivano per niente, finivano per dire le cose più stupide e inappropriate. La cosa bella è stata proprio scoprire questi aspetti comuni, sapere che non si è i soli a soffrire di questa ansia, ma che al contrario siamo in tanti a temere lo sguardo altrui. E su questo si rideva insieme: non l'uno dell'altro, ma tutti insieme si ironizzava, raccontandosi cosa si era disposti a fare pur di cavarsi d'impaccio. E' per questo che, fin dal 2006, ho sempre immaginato questo film come una commedia, perché trovo che la risata sia la migliore terapia.
Come ti è venuta l'idea di avere due cioccolatai come protagonisti?E' stata un'idea dello sceneggiatore. In realtà quasi tutta la sceneggiatura è stata scritta in una sala da tè, piena di pasticcini e cioccolatini, in Belgio, suo Paese d'origine, e quindi è stato il mestiere che ci è venuto in mente fin da subito. Abbiamo ragionato molto su quale dovesse essere il lavoro dei protagonisti, e io non volevo, a differenza che nei miei film precedenti, fare qualcosa di troppo realistico: i protagonisti vivono in un universo a parte, e se è vero che molte delle persone che ho incontrato agli Emotivi Anonimi erano insegnanti o impiegati di banca, insomma persone che dovevano avere a che fare con un pubblico e dovevano per forza di cose nascondere la loro timidezza, volevo anche rappresentare un universo più allegro, qualcosa di meno ancorato alla realtà. Il cioccolato è un mondo a parte, è un piacere, è sensualità, è qualcosa che si deve condividere, e soprattutto per Angélique il cioccolato rappresenta quello che rappresenta il cinema per me, fin dall'adolescenza, ovvero il mezzo per esprimersi e per superare le proprie paure. E poi, è solo quando c'è passione che si va davvero verso gli altri.
Il personaggio di Angélique l'hai costruito pensando anche alla Catherine Deneuve di Les Parapluies de Cherbourg?
In effetti mi è stato spesso citato il paragone con il lavoro di Jacques Demy, per l'universo un po' fiabesco che ho evocato. A film finito, devo ammettere che può ricordarlo, proprio in virtù di questa atmosfera favolistica.
In Italia sono usciti due film, Lezioni di cioccolato e Lezioni di cioccolato 2, in cui il product placement aveva un ruolo importante. Nel tuo film invece non si vede nessun marchio: è stata una scelta sofferta?
Probabilmente il produttore sarebbe stato ben lieto se qualcuno ci avesse sponsorizzato, perché sarebbe equivalso a guadagnare più soldi, ma devo dire che non ho mai discusso questo argomento. Il punto è proprio avere a che fare con una fabbrica piccola, di dimensione artigianale. Io per natura sono sempre vicino ai più piccoli, non ho niente a che fare con il glamour, e quindi la cioccolateria di Jean-René non poteva somigliare ai laboratori d'oggi, molto più asettici. Quel posto riflette la personalità del proprio padrone, perché quando si soffre di ansia si tende a lasciare le cose come stanno, non certo a cambiarle.
Io avevo veramente voglia di fare un film che fosse in grado di aiutare chi lo avesse visto. Dopo l'uscita del film ho ricevuto molte lettere in cui mi si ringraziava perché il mio lavoro aveva aiutato qualcuno a superare le proprie paure, e soprattutto il proprio senso di colpa: molte persone afflitte da questo problema infatti lo nascondono, si vergognano a parlarne, e sapere che qualcuno ha avuto il coraggio di dichiararlo mi fa molto felice. La cosa brutta dell'ansia è che ti impedisce di vivere, di prendere dei rischi; molti si lamentano dei propri rimpianti, di quello che non hanno fatto per mancanza di fiducia: spesso si tratta di un amore, ma potrebbe essere anche il sogno di fare i cioccolatai. La cosa triste, insomma, è che non riescano a vivere la vita che vorrebbero. Anche perché il mondo di oggi è ossessionato dalla prestazione, abbiamo dei modelli basati sul successo, bisogna sempre essere i primi nel lavoro, nell'amore, nel sesso, e ovviamente la reazione di molti è quella di pensare "non ce la farò mai". Per questo avevo voglia di fare un film in cui persone, se vogliamo, più modeste arrivano a quello che realmente desiderano: a loro modo, certo, ma ce la fanno. Mi ha colpito molto la lettera di una giovane donna che mi raccontava come avesse visto il film con il proprio fidanzato, in un periodo in cui era angosciata per il matrimonio che stavano progettando: aveva paura per l'incontro delle famiglie, per la festa, per tutto. E insomma, guardando il mio film, lei e il ragazzo hanno concluso che il matrimonio per loro non fosse necessario, ma anzi fosse una fonte di sofferenza più che di gioia. Io non volevo prendermi questa responsabilità, ma se per loro è stato giusto così, ben venga: in ogni caso, il mio non è un film contro il matrimonio!
Come hai scelto gli attori protagonisti?
Con Isabelle avevo già girato quattro anni fa un film per la televisione, e questa sceneggiatura è stata scritta pensando a lei, ispirandomi anche a lei, perché è molto simile al personaggio di Angélique. Può sembrare strano, ma anche lei ha molte paure, come del resto le hanno molti grandissimi attori, che spesso hanno scelto di fare gli attori proprio per questo: recitare è una delle migliori maniere per nascondersi. Lei mi ha anche dato diverse idee: ad esempio anche Isabelle canta tra sé e sé quando deve affrontare un incontro importante, una conferenza stampa, insomma qualcosa che le mette ansia. Io adoro dirigere attori che mettono qualcosa di loro nei propri personaggi, e sia Isabelle che Benoit lo hanno fatto. Non conoscevo personalmente Benoit, ma anche il suo personaggio è stato scritto pensando a lui: avevo visto parecchi film in cui interpretava ruoli comici, ma sentivo che in lui ci fosse anche dell'altro, e ho cercato di farlo emergere in questo film. Nella vita reale è un tipo estroverso, sempre al centro dell'attenzione, ma questo rappresenta il suo mettere in atto una strategia per trovare la propria collocazione nel mondo, per essere apprezzato. E' stato Benoit stesso a dirmi che il modo migliore per nascondersi è fare rumore, ma ognuno ha la propria formula. Pensate che in un'intervista, quando gli hanno chiesto se avesse avuto delle difficoltà a immedesimarsi nel personaggio, ha risposto che gli bastava imitare il regista!
Una persona ansiosa troverà sempre motivi per alimentare la propria ansia. In passato, in occasione dei miei precedenti film, che avevano avuto molto meno successo, mi dicevo "il mio lavoro non piace a nessuno, se potessi fare un film di successo starei molto meglio", e invece assolutamente no! L'ansia è come un mostro che va nutrito, non ci si libera dall'ansia. Questa è la mia prima commedia e voi siete fortunati a non aver visto gli altri miei film, che erano molto più dark, ed essere riuscito in questo cambiamento è per me già un grande passo. Fare un film che può fare del bene mi fa stare bene a mia volta, e credo che se durante la mia adolescenza avessi visto un film così mi avrebbe fatto molto bene.
Pensare all'incasso milionario del film che sensazione ti dà?
Non ho idea di quanto il film abbia incassato. Però, al di là dei calcoli, sono molto felice: da un anno a questa parte ho girato il mondo seguendo il film, sono stato negli Stati Uniti, in Giappone, e proprio lì i giornalisti mi hanno sorpreso, dicendo che il mio era un film sui giapponesi. Io non me lo sarei mai immaginato, ma col senno di poi, pensando alla loro sensibilità, al loro riserbo, era logico concludere che questo atteggiamento nascondesse una grande paura. Quello di cui si parla nel mio film è un argomento universale, che accomuna tutto il mondo, e mi rende felice che, anche nei confronti di un pubblico più limitato come può essere quello giapponese, abbia avuto una sua forza.
Ansia e fobia sono la stessa cosa?
La fobia, in questo caso la fobia sociale, è l'ultimo stadio dell'ansia, quello in cui si arriva a non poter più vivere in società: non si riesce nemmeno più ad uscire di casa, o a prendere la metro. Agli Emotivi Anonimi ho conosciuto persone che uscivano di casa solo per venire lì, e per loro era già un'enorme conquista. Io non sono mai arrivato a questo punto, ma ad esempio odio quando qualcuno sale in ascensore con me, e se sento qualcuno salire per le scale aspetto a scendere finché non è andato oltre. Un altro grande problema sono i negozi, specialmente di vestiti: essendo così alto, ho anche difficoltà nelle taglie, e finisco sempre per comprare in fretta, un po' a caso, pur di mettere fine a quella pena. Credo che siano in tanti ad avere questa angoscia, così come quella di andare dal parrucchiere, perché quello che ha a che fare con il corpo dà imbarazzo.
Quindi la tua ansia non l'hai ancora superata? E come riesci ad affrontare queste conferenze stampa?
Ormai ho cinquant'anni, sono cresciuto, e ho imparato a gestire questo aspetto. Non sono mai tranquillo, ho la stessa paura che provano gli attori prima di salire sul palcoscenico. Ma proprio questa paura è il motivo che mi spinge a non evitare di agire: sin da piccolo sognavo di fare il regista, amavo il cinema, e nonostante la paura sapevo di doverlo fare. Quindi, adesso più una cosa mi fa paura, e più sono convinto di doverla fare, anche perché più si evitano le cose che ci spaventano più si diventa soli, e meno fiducia si ha in se stessi. Questa ansia adesso è un mio alleato, la vivo come un gioco: quando ho paura di qualcosa, significa che quella cosa la devo assolutamente fare.
In Francia mi dicono che le commedie mi riescono meglio rispetto a quello che facevo prima, e che quindi dovrei continuare a farne. Però non è che fare commedie mi riesca più facile, ed è difficile calcolare a priori cosa avrà più o meno successo. Di sicuro conserverò tanti elementi di questa esperienza. Bisogna dire che il filo conduttore dei miei film è la paura: delle relazioni, come in questo caso, o dell'incertezza politica, e una volta ho fatto un film, ispirato a una storia realmente accaduta, in cui un ragazzo si autoaccusa di un crimine non commesso pur di finire in carcere, e di essere quindi al riparo dal mondo esterno. Ma sono anche una persona positiva, voglio far vedere che questa paura si può vincere.
Le commedie francesi hanno spesso un carattere universale. Ti hanno già fatto un'offerta per un remake hollywoodiano?
Mi piacerebbe molto che lo facessero, e come protagonisti vedrei bene Steve Carell e Anne Hathaway! Negli Stati Uniti è uscito da poco, e non ho ricevuto nessuna offerta, ma sono aperto all'idea. La mia ispirazione, d'altronde, è stata soprattutto la tradizione anglosassone, americana della commedia: io amo i film degli anni Quaranta e Cinquanta, quelli con protagonista James Stewart, quelli di Billy Wilder, quelli alla Victor Victoria: non per niente Jean-René è modellato su James Stewart, e a Isabelle ho fatto vedere i film con Ginger Rogers.