È un'appassionata e instancabile narratrice dei traumi e delle contraddizioni della sua terra, la Bosnia, raccontando le ferite della guerra serbo-bosniaca degli anni '90 attraverso una prospettiva squisitamente femminile: lo ha fatto con Il segreto di Esma, Orso d'oro alla 56esima edizione del Festival di Berlino, e qualche anno più tardi con il più celebre Quo vadis, Aida?, il film candidato agli Oscar nel 2021, che ripercorre il massacro di Srebrenica, il genocidio perpetrato dalle truppe serbe ai danni di otto mila ragazzi e uomini bosniaci nel luglio del 1995 . Oggi Jasmila Zbanic è una delle voci più vivaci del cinema balcanico, che dal 29 novembre al 4 dicembre è tornato protagonista a Roma con una serie di proiezioni e incontri all'interno del Balkan Film Festival.
È qui che la incontriamo prima della proiezione di Quo Vadis, Aida? che inaugura la manifestazione. In questi anni, ci anticipa, sono cambiate molte cose e nel frattempo ha lavorato alla serie HBO The Last of Us, adattamento dell'omonimo videogioco, in streaming su Sky dal prossimo 16 gennaio. "Volevo capire come si lavora negli Stati Uniti, è stata un'esperienza interessante e completamente diversa da tutto ciò che ho fatto fino ad ora: lavorare su un set con delle star, un budget considerevole e tutta una serie di possibilità che di solito non abbiamo nelle produzioni bosniache. Quando giro i miei film, di cui sono anche produttrice, so esattamente cosa posso o non posso fare", ci dice e aggiunge: "The Last of Us è stato un viaggio in paradiso, ma sento di dover ancora raccontare le mie storie per il mio paese, per i miei Balcani e l'Europa".
Gli orrori della guerra visti dal cinema
Che effetto le fa rivedere oggi il suo film, Quo vadis, Aida?, mentre un'altra guerra imperversa nel cuore dell'Europa? L'uomo non impara mai abbastanza dai propri errori...
La notizia dell'aggressione all'Ucraina è stata scioccante per me, ho pensato: "Ok, la guerra nei Balcani è stata l'ultima e abbiamo imparato tanto da quel conflitto e come Europei non permetteremo mai che possa succedere di nuovo qualcosa di analogo". Ma la cosa scioccante di cui mi sono subito resa conto è che quando è scoppiata la pandemia di Covid, abbiamo imparato velocemente come realizzare i vaccini e come isolarci per fermarla, mi sembra però che non siamo stati abbastanza bravi a imparare come si ferma una guerra. Perché una volta iniziata, allora è finita, è un casino totale ed è difficile fermarla. Non abbiamo mai imparato a prevenirla, se ci ritroviamo a parlare ancora di guerre, aggressioni e o di violenza maschile è come vivere nel Medioevo. Perché la guerra è maschile, è fatta, gestita e combattuta da uomini, è la massima espressione del patriarcato. E questo per me è sconcertante, le immagini dell'Ucraina mi hanno ricordato la guerra in Bosnia, a Sarajevo ed è davvero triste non avere imparato nulla e non averlo saputo evitare.
Qual è il ruolo del cinema nella rivisitazione degli orrori del passato?
Credo che il cinema sia uno strumento unico e potente: mette il pubblico per 100 minuti in una situazione in cui le persone possono identificarsi con i personaggi sullo schermo. Quando sentiamo le notizie al tg o leggiamo un testo, riceviamo delle informazioni, il cinema invece ci dà una completezza e pienezza inimitabili: sentiamo le vibrazioni dell'immagine e del suono negli occhi, sulla pelle, è un'esperienza davvero completa. Molte persone che hanno visitato Srebrenica mi hanno detto di aver imparato molto sul genocidio avvenuto nel 1995 andando in quei posti, ma mi hanno anche raccontato che solo quando vedi il film riesci veramente a capire come deve essere stato per un comune essere umano passarci attraversare. Solo così ti rendi conto che la guerra non è più una questione di numeri: se dici 8372 persone morte, è un grande numero, ma vederli in un film, in questo caso con il volto dei figli di Aida, è completamente diverso, perché potrebbero essere i tuoi figli, tuo padre, tua madre e allora cambia tutto. Ecco perché per me il cinema è davvero uno dei modi più belli che gli esseri umani hanno per comunicare.
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Le new wave del cinema balcanico: tra sguardo femminile e elaborazione del conflitto
Cosa definisce oggi il cinema balcanico? Quali sono le linee emergenti?
Il cinema balcanico sta cambiando fortunatamente perché sempre più donne si impegnano a raccontare delle storie. Fino a qualche anno fa il nostro cinema era dominato da una prospettiva interamente maschile: le storie erano piene di personaggi femminili abusati da uomini, o che erano quasi sempre buone madri o prostitute. La maggior parte dei ruoli per donne si limitava a queste due categorie, ma per fortuna oggi sono sempre di più le autrici che scrivono storie femminili e le dirigono in un modo completamente nuovo. In molte parlano del ruolo della violenza maschile non solo in guerra ma anche tra le mura domestiche in una società completamente dominata dagli uomini. Più donne cominciano a fare film, più la violenza viene criticata invece che glorificata, come invece è spesso successo nella storia del cinema balcanico dove la glorificazione della violenza ha sempre trovato spazio. Oggi siamo riusciamo a essere critiche nei confronti di certi valori tradizionali che ci stavano uccidendo.
Quanto è stato decisivo il tema della guerra nella ex - Iugoslavia nella definizione della cinematografia balcanica?
La guerra è qualcosa che come popolo stiamo cercando ancora di superare. Ne ho parlato spesso anche con alcuni ucraini: un conflitto non finisce con un accordo di pace. Per esempio, la guerra in Bosnia è finita nel 1995, ma le madri di Srebrenica ancora oggi dopo quasi trent'anni cercano i corpi dei loro figli. Quindi no, la guerra non è stata ancora elaborata, ne stiamo ancora sentendo le conseguenze ed è normale che sia parte delle storie che raccontiamo. Ma da quello che ho potuto vedere dai film in programma a questo festival, cominciano a farsi strada nuovi soggetti e tematiche europee come la rotta balcanica dei migranti o l'emancipazione femminile. Anche questo fa parte del quadro europeo.
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La prospettiva femminista di Quo vadis, Aida??
Aida, la protagonista del suo film, è una sorta di "madre coraggio". Rappresenta l'unica donna in una guerra di uomini...
Di solito la guerra nei film è ritratta da una prospettiva maschile, ma poiché ho vissuto in prima persona l'assedio di Sarajevo durato per tre anni e mezzo, posso dire di non averci mai trovato nulla di eroico. Ho sempre visto la guerra come qualcosa che non fa bene a nessuno, dove anche chi pensa di essere un vincente in realtà è solo un perdente. La guerra è la banalità del male, diceva Hannah Arendt, di solito si parla di soldati, di martiri, di eroi, e il ruolo delle donne viene estremamente ridotto; Aida per me rappresenta tutte le donne che ho conosciuto a partire da mia madre che durante la guerra doveva trovare da mangiare per me e mio fratello. Eravamo adolescenti e a Sarajevo non c'era cibo, ma ogni giorno preparava per noi il pranzo, la cena e la colazione. Non ho idea di come sia riuscita. Quando parliamo di guerra ci riduciamo a parlare di granate, soldati e bombe, ma sono altre le cose che mantengono le persone in vita: sono l'amore e la passione di mia madre e di tutte le madri di Srebrenica. E non ho mai visto nulla di tutto questo nel cinema balcanico.
Perché ha voluto che Aida fosse un'insegnante?
Era molto importante per me che l'epilogo del film fosse nei nostri giorni e nel mondo di oggi. Non avrei mai voluto che finisse con gli omicidi e la sua disperazione. Mi piace sempre chiedermi: "Ok, e adesso? Cosa c'è ora?". Faccio sempre film che riguardano il passato, ma in effetti sono sempre storie sull'oggi e quello che stiamo vivendo. Alla fine di Quo vadis, Aida? la mia domanda era: dopo tutta questa esperienza, dopo aver visto i suoi figli e suo marito morire cosa ci direbbe Aida e cosa insegnerebbe ai bambini? Quello è stato il momento chiave per definire la sua professione, doveva essere un'insegnante a dirci come vivere e cosa dire ai nostri figli perché tutto questo non si ripeta.
In che modo il cinema italiano l'ha influenzata?
Studiavo cinema all'Accademia di Sarajevo, durante la guerra non avevamo molta elettricità e non sempre il cinema era in funzione. Ma quando avevamo un generatore e si poteva proiettare, la nostra scuola ci faceva vedere un sacco di film italiani e lì ho scoperto un sacco di vecchi classici: Fellini, Pasolini, Antonioni. Quei film erano molto vicini all'anima dei Balcani per umore, personaggi ed energia; Liliana Cavani e Lina Wertmüller per me, all'epoca giovane regista, sono state dei veri modelli di ispirazione. Mi hanno fatto pensare: "Ok, anche le donne possono farlo". E poi il cinema italiano che conoscevo era molto di sinistra, e io sono cresciuta con il socialismo; quindi da quel momento l'ho sentito molto, molto vicino.