Uscito nelle sale italiane il 23 marzo, Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse è stato presentato in anteprima mondiale allo scorso Festival di Cannes (nella sezione del concorso ufficiale). Il film segna il ritorno dietro la macchina da presa del cineasta statunitense James Gray. Regista e sceneggiatore dallo stile minimalista e delicato, Gray è un autore che è riuscito a trovare sempre più successo e risonanza all'interno dell'industria cinematografica mondiale. I suoi film sono ormai ampiamente conosciuti e attesi, grazie anche ai numerosi divi che spesso desiderano partecipare ai suoi progetti arricchendo il cast con nomi di tutto rispetto. Il suo cinema si muove in punta di piedi all'interno di maglie narrative decisamente fragili, e sembra prestare particolare attenzione a temi che riguardano la debolezza dell'uomo, i rapporti familiari, l'infanzia e i traumi derivati da un passato lontano ma dal quale sembra difficile liberarsi.
Armageddon Time - Il tempo dell'apocalisse non è da meno. Il film racconta infatti la storia di Paul, adolescente di buona famiglia che nella New York degli anni Ottanta è costretto a confrontarsi con le difficoltà e le contraddizioni che la vita gli sottopone. L'amicizia con Johnny, coetaneo afrodiscendente, è messa a dura prova dall'ottusità dei pregiudizi razziali, e il suo rapporto con la famiglia è spesso conflittuale. Gli rimangono il conforto dei suoi sogni e l'affettuosa vicinanza del nonno. Chiamando al suo fianco l'attrice Anne Hathaway, supportata dal sempre intenso Anthony Hopkins, Gray firma una sorta di summa del suo cinema, un lavoro autobiografico capace di toccare le giuste corde emotive. In questo progetto possiamo infatti ritrovare tutta la sua cifra tematica e stilistica che tanto abbiamo potuto apprezzare lungo la sua carriera. Ecco il motivo per cui ci sembrava interessante riportare indietro le lancette e provare a isolare cinque film immancabili all'interno della filmografia di James Gray: cinque titoli da recuperare o riscoprire per avvicinarsi con uno sguarda più attento alla visione del suo ultimo lavoro.
1. Little Odessa (1994)
Il talento di James Gray viene certificato subito a partire dal suo folgorante esordio. All'epoca solo venticinquenne, il regista firma una delle opere più interessanti del panorama statunitense degli anni Novanta sbarcando subito al Festival di Venezia dove si aggiudicò il premio per la miglior regia e la migliore interpretazione femminile, lanciando così il nome del regista tra gli enfant prodige più rilevanti degli ultimi anni. Ambientato nell'omonomo quartiere di Little Odessa, a Brooklyn, il film racconta le tensioni familiari di personaggi che sono pienamente invischiati in affari criminali. Il sentore è un po' quello dei film di Martin Scorsese (di cui Gray è un discepolo dichiarato) ma c'è anche la spia evidente di una mano consapevole e sicura nel sapere tratteggiare le tinte chiaroscurali di uomini e donne costantemente in bilico tra morale ed emozionale. Tim Roth regala un'interpretazione che non si dimentica facilmente, ma la sorpresa è tutta nella maturità registica di Gray che alterna momenti di alta tensione ad alcuni più intimi e delicati che vengono trattati con grande cura e sensibilità. Per chi ancora non l'avesse visto, si tratta di un doveroso recupero.
2. I padroni della notte (2007)
Presentato in concorso al Festival di Cannes, I padroni della notte segna il ritorno di Gray dietro la macchina da presa a sette anni di distanza dal precedente The Yards (2000). Cimentandosi con un thriller contemporaneo, il regista contamina il genere con venature western e un retrogusto noir, dando così vita a un'operazione assolutamente affascinante e innovativa seppur condotta con uno stile invidiabilmente classico. Nella New York degli anni Ottanta, Bobby (personaggio interpretato da Joaquin Phoenix) gestisce un locale frequentato da criminali russi e prende di gran lunga le distanze da suo papà e suo fratello (rispettivamente Robert Duvall e Mark Whalberg), stimatissimi poliziotti. Le vicende familiari si intrecceranno inevitabilmente e se è vero che i panni sporchi si lavano in famiglia, quelli dei tre personaggi al centro del film potrebbero richiedere più di un risciacquo. Anticipando, solo da un punto di vista teorico, le riflessioni della pellicola successiva, Two Lovers (2008), riguardo ai bivi della vita e la difficile scelta da dover compiere per intraprendere una strada invece che un'altra (il personaggio di Phoenix, così come accadrà nel film successivo, è diviso tra la tradizione famigliare e il fascino per il nuovo mondo criminale che gli si prospetta innanzi), I padroni della notte è anche un grande omaggio a una New York tremendamente ammaliante e ipnotica, capace però di nascondere sotto il suo sensuale manto superficiale una componente criminale ben radicata e solidissima.
3. Two Lovers (2008)
Considerato dalla maggioranza della critica (probabilmente a ragione) il capolavoro di James Gray, Two Lovers è un film di rara potenza cinematografica. Raccontando la storia di un uomo tormentato e alle prese con una separazione importante dal punto di vista emotivo (interpretato da un bravissimo Joaquin Phoenix), il film porta in scena il tema del doppio e della scelta. Non solo perché il protagonista dovrà trovarsi di fronte a due donne (tre in realtà, se consideriamo anche la madre interpretata da Isabella Rossellini) tra cui scegliere, ma anche perché è proprio il film a possedere una sorta di doppia anima. Da una parte infatti abbiamo lo stile e il tratto intimi e delicati propri di un certo cinema indipendente che stava trovando a New York e in quegli anni la giusta casa nel quale crescere e affermarsi, dall'altra invece la mano solida di un regista capace di gestire impianti decisamente più mainstream che si trova dinanzi a una scelta molto coraggiosa da prendere. Gray infatti arrivava dal genere più poliziesco e per la prima volta decide ora di cimentarsi in un melodramma metropolitano. La sfida è ambiziosa ma il regista dimostra di essere in grado di domare qualsivoglia ostacolo e confeziona un film dal sapore classico e incisivo al tempo stesso, un'operazione davvero antologica che sicuramente resterà viva nei ricordi e nei cuori di chi guarda per molto, moltissimo tempo.
4. C'era una volta a New York (2013)
Presentato in concorso al sessantesimo Festival di Cannes, il quinto lungometraggio del regista è un melodramma storico che si avvale di una messa in scena decisamente invidiabile. A cavallo tra vecchio e nuovo continente, la storia di amore struggente raccontata in C'era una volta a New York è anche la storia di persone diverse e mentalità opposto che però non possono far altro che intrecciarsi. È curioso notare che, nonostante il film sia perfettamente tripartito, come si evince anche dalla locandina pubblicitaria, sono in pochi a ricordare la presenza di Jeremy Renner nel cast. Tutti infatti associano subito la pellicola ai volti di Joaquin Phoenix e Marion Cotillard o alla regia dell'autore newyorkese che con questo lavoro firma una delle sue pellicole più sinuose e ammalianti (a tratti addirittura un po' al limite della maniera). Eppure il personaggio di Renner non solo diventa una chiave imprescindibile del plot narrativo, ma è anche forse l'elemento più interessante dell'opera: si tratta infatti di un illusionista, un uomo di spettacolo nella cui finzione si riflette il desiderio di evasione e la speranza di riscatto della protagonista. Da una parte c'è il sogno di una nuova vita, una nuova libertà, un nuovo continente (in tutti i sensi), dall'altra invece le radici che nel bene o nel male la legano al passato, all'Europa, a dei valori ingombranti difficili da sciogliere e che rischiano di diventare le inferriate di una prigione esistenziale, prima ancora che fisica e concreta, dalla quale sarà sempre più difficile evadere.
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5. Ad Astra (2019)
Presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia e girato in pellicola 35mm, Ad Astra è una delle operazioni più controverso di James Gray. Il viaggio esistenziale condotto dall'astronauta protagonista (un Brad Pitt come sempre intenso e in parte), è il pretesto per portare in scena un rapporto padre-figlio piuttosto turbolento. Tuttavia, la fantascienza fa da cornice all'ennesimo racconto dedicato alle ossessioni di un uomo costretto a fare i conti con le proprie emozioni. Gray omaggia il genere cercando di elevarlo nella sua componente più filosofica. Non sempre l'esito è convincente (in alcuni passaggi l'epica e la retorica cinematografica sembrano prendere il sopravvento sull'equilibrio d'insieme), eppure quella di Ad Astra resta un'operazione affascinante e calorosa, in grado di appassionare e incollare allo schermo anche il pubblico più scettico. La maestria e l'eleganza della regia sono il vero valore aggiunto di un progetto ambizioso che però non si dimentica mai di ricondurre al centro l'intimità del protagonista, con tutte le sue fragilità e i suoi dubbi. Appena prima di questo lungometraggio, nel 2016, Gray aveva diretto Civiltà perduta, un film a tratti decisamente simile a questo, ambientato però agli inizi del Novecento. I due lavori, insieme, formano una coppia davvero interessante: l'uno radicato nel passato, l'altro proiettato nel futuro, entrambi basati su delle spedizioni di (avan)scoperta finalizzate alla ricerca di un equilibrio più introspettivo e personale invece che esotico e oltre il confine dell'umana conoscenza.