"È troppo buona. Insomma, questo è Deadpool 2, non Titanic, e tu in pratica sei un undici: dobbiamo farti calare a cinque, massimo cinque e mezzo... falla più svogliata." "Ascolta, questa voce arriva soltanto a undici, quindi sparisci, Spider-Man!"
Lo scambio di battute fra Ryan Reynolds nel costume del supereroe Deadpool e Céline Dion è la scena di chiusura del video di Ashes, canzone portante della colonna sonora di Deadpool 2, ed è riportato anche all'interno del documentario di Irene Taylor, al centro della nostra recensione di Io sono: Celine Dion. Si tratta di un siparietto ironico che richiama direttamente le parole di Céline Dion quando, davanti alla cinepresa della Taylor, spiega invece con drammatica serietà i motivi per cui, negli ultimi cinque anni (il suo ultimo album, Courage, risale al 2019), non abbia registrato quasi più nulla: perché quando entra in studio, ciò che il mondo si aspetta da lei è la potenza fenomenale di una voce inconfondibile; ciò che il mondo si aspetta da lei è l'acuto da brivido di All by Myself. E oggi, per Céline Dion, questa è ormai un'impresa fuori portata.
Realizzato per Amazon Prime Video e affidato alla regia di Irene Taylor, candidata all'Oscar per il cortometraggio The Final Inch, Io sono: Celine Dion è imperniato su una consapevolezza granitica ma dolorosa: l'impossibilità di soddisfare quell'anelito di perfezione capace di dar senso a un'esistenza. "C'erano momenti in cui dovevo entrare in studio e sapevo che volevano Céline Dion", rivela la popstar canadese, oggi cinquantaseienne; ma chi è Céline Dion? "È la migliore", risponde la Dion, chiedendo implicitamente chi sia dunque Céline oggi, se non è più in grado di offrire quella perfezione che ci si attende da lei. La stessa perfezione che, a partire dal suo esordio sulla scena del pop internazionale nel 1990 (ma due anni prima aveva già trionfato all'Eurovision Song Contest cantando in francese), l'ha portata a vendere duecento milioni di dischi e a imporsi come una delle più grandi interpreti di ogni epoca, con una potenza vocale paragonabile solo a quella di colleghe quali Barbra Streisand e Whitney Houston.
Il ritratto di una portentosa antidiva
Sebbene sia stato co-prodotto da Les Productions Feeling, compagnia di proprietà di Céline Dion, e dalla sua etichetta discografica, la Sony Music, Io sono: Celine Dion si sottrae, almeno in parte, all'approccio agiografico della maggior parte dei documentari dedicati a star del mondo dello spettacolo, tanto più quando - come in questo caso - sono supervisionati e approvati dai protagonisti in questione. Pertanto, il film di Irene Taylor evita di ripercorrere il cursus honorum che dalla natia Charlemagne, paesino del Québec con poche migliaia di abitanti, avrebbe portato l'adolescente Céline, ultima ben di quattordici figli, prima a diventare una celebrità locale, poi ad affacciarsi sul mercato francofono (nel 1983 la sua D'amour ou d'amitié conquista le classifiche in Francia), quindi a conquistare lo scettro di regina delle power ballad nel corso degli anni Novanta, grazie alle vendite record di album come The Colour of My Love, Falling into You e Let's Talk About Love (senza dimenticare D'eux, il disco in francese più venduto di sempre).
Di tutto questo nel documentario quasi non vi è traccia, se non per qualche spezzone delle sue esibizioni: River Deep, Mountain High, intensa cover del classico di Tina Turner; The Power of Love, già incisa nel decennio precedente da Jennifer Rush e Laura Branigan, ma resa ancor più popolare dalla versione pubblicata da Céline nel 1993; e ovviamente My Heart Will Go On, fenomeno planetario ancorato alla febbre collettiva per Titanic, ma qui relegata a una fugace parentesi. In tutto il film, è forse l'indizio più emblematico della scarsa vanità della Dion: dedicare appena una manciata di secondi a una delle canzoni più famose e amate negli annali del pop, punta di diamante di una discografia ammantata di innumerevoli record, per lasciare invece molto più spazio all'ammirazione della Dion per la popstar australiana John Farnham e al loro duetto sul palco con la ballata You're the Voice. Io sono: Celine Dion, insomma, è tutt'altro che una cronistoria sull'"usignolo del Québec", ma piuttosto l'intimo ritratto di una fuoriclasse in una fase cruciale della propria vita - e, di riflesso, della propria carriera.
L'usignolo non ha smesso di cantare
Le riprese del film hanno coinciso infatti con la diagnosi della sindrome della persona rigida, la rarissima malattia neurologica che ha compromesso le doti canore di Céline Dion, nonché la vitalità e l'energia che ne caratterizzavano i concerti: una diagnosi resa nota da Céline con un video l'8 dicembre 2022, motivando così la cancellazione dei suoi spettacoli. E tale malattia è non a caso il principale oggetto di riflessione di un documentario che, a partire dalla prima persona del titolo, si propone di mostrarci il lato più intimo e privato di un'antidiva contraddistinta dalla spontaneità solare e dal suo essere decisamente down-to-Earth. Davanti alla cinepresa, la semplicità dell'abbigliamento e dell'acconciatura, l'assenza di trucco, la rinuncia a qualunque pennellata glamour rientrano dunque nell'ottica della 'confessione' senza filtri, a tu per tu con il pubblico, di una star disposta a raccontarsi nei suoi momenti di suprema vulnerabilità.
Tuttavia, ciò non significa che il film si addentri nei territori del pietismo: gli sguardi velati di lacrime di Céline sono bilanciati dalle pennellate di autoironia, dalla verve innata, perfino dalle salutari concessioni alla frivolezza. Due esempi su tutti, l'irresistibile imitazione della collega Sia durante il talk-show di Jimmy Fallon e la scena incentrata sulla sua passione per le scarpe ("Quando una ragazza ama le sue scarpe, riesce sempre a farsele andar bene"). Di contro, la scelta della Dion di mettersi a nudo rispetto alla convivenza con la propria sindrome è esemplificata dalla sequenza in cui la popstar viene ripresa nel pieno di una crisi, con il corpo paralizzato dagli spasmi muscolari e il volto contratto in una smorfia di dolore: una cronaca in presa diretta, a cui saggiamente la Taylor non aggiunge alcuna enfasi ulteriore, lasciando che a parlare sia solo la brutale semplicità delle immagini.
Conclusioni
È impossibile, pertanto, non considerare Io sono: Celine Dion in primo luogo come un affettuoso tributo alla resilienza della sua protagonista, oltre che alla dedizione incrollabile nei confronti del pubblico. Quel pubblico verso il quale Céline spiega di sentirsi come un albero di mele, che un tempo abbondava di frutti ma ora è pieno di rami secchi; e a cui, nell’epilogo, promette che comunque troverà il modo di tornare in scena: «Se non potrò correre, camminerò. Se non potrò camminare, striscerò. Ma non mi fermerò». E quella voce, oggi più fragile e trattenuta rispetto alla Céline del passato, sembra lì a testimoniarlo: che si tratti di una nuova, difficile incisione (il brano Love Again), di frasi che confluiscono in versi di canzoni o della melodia accennata al termine di una crisi. A dar prova che, a dispetto delle difficoltà e della malattia, lei è ancora Céline Dion.
Perché ci piace
- La forza emotiva di un racconto-confessione in cui gli intenti celebrativi lasciano spazio alla sincerità cristallina della protagonista.
- La capacità di mettere in risalto il carisma e la verve di Céline Dion.
- L’equilibrio nel bilanciare gli aspetti più drammatici del documentario con momenti di vivacità e di ironia.
Cosa non va
- La difficoltà di elaborare un discorso più ampio e approfondito sul rapporto fra lo statuto di celebrità e la realtà della malattia.