Dopo la partecipazione allo scorso Festival di Venezia con Beasts of No Nation, Netflix sbarca anche al festival di Roma con uno dei suoi documentari originali, l'affascinante Into the Inferno di Werner Herzog, che ci porta in giro per il mondo per visitare i vulcani più grandi e pericolosi del pianeta, accompagnati dall'esperto di fama internazionale e professore di Cambridge Clive Oppenheimer. Il documentario, che sarà aggiunto al catalogo del popolare servizio streaming a partire dal prossimo 28 Ottobre, è ispirato proprio dall'incontro del regista con il famoso vulcanologo e sul libro di quest'ultimo Eruptions that Shook the World.
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Si tratta di un viaggio affascinante, che ci porta al cospetto di pericolosi giganti che hanno segnato la storia del nostro pianeta e le popolazioni che vivono alle loro falde, influenzandole dal punto di vista culturale. Dall'Africa all'Asia, passando per la Groenlandia e spostandosi in ogni parte della Terra, Herzog e Oppenheimer si rivelano più interessati a mostrarci proprio questo aspetto del fenomeno, senza rinunciare ad alcune riprese mozzafiato e di grande impatto, ma mettendole al servizio del messaggio più profondo che intendono comunicare. Per questo è stato interessante anche incontrare il vulcanologo nell'ambito dell'edizione 2016 della Festa del Cinema di Roma, lasciandoci guidare nel dietro le quinte del progetto a cui ha preso parte.
Dalle cime dei vulcani allo schermo
Come ha incontrato Herzog e come è nata questa collaborazione?
Ho incontrato Herzog dieci anni fa mentre girava Encounters at the End of the World e io ero lì che studiavo il vulcano. Tra noi è scoccata subito la scintilla dell'amicizia. Lui era vicino la bocca del cratere e quello che ci ha immediatamente unito sono i racconti che lui faceva, gli aneddoti con cui ci intratteneva. Abbiamo persino fatto anche una piccola retrospettiva dei suoi film. Lui aveva già affrontato l'argomento in precedenza, ma mi sono trovato a dirgli che probabilmente con i vulcani non aveva ancora finito e ci siamo tenuti in contatto. Circa cinque anni fa, quando avevo appena completato il mio libro gli ho mandato una copia e gli ho detto "ora è il momento di fare sul serio". Allora abbiamo iniziato a mettere in moto la macchina produttiva e raccogliere i finanziamenti.
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Come avete scelto i vulcani da mostrare? Sono tutti quelli presenti nel libro?
I crediti del film dicono "ispirato da" e non "basato sul" mio libro, e questo dà una descrizione molto corretta del lavoro che abbiamo fatto. Abbiamo visitato alcuni dei vulcani che hanno avuto eruzioni importanti e che sono presenti nel libro, ma abbiamo trattato il materiale in modo molto diverso. Abbiamo scelto quelli che avevano un legame più stretto con lo sviluppo delle popolazioni che lo circondavano e con aspetti concreti dell'evoluzione del nostro pianeta, dando l'elemento della prospettiva temporale e del legame con la storia umana, ma allo stesso tempo raccontare quello che è il rischio vulcanologico concreto che non va trascurato al giorno d'oggi. In più abbiamo scelto location che potevano darci qualcosa di potente dal punto di vista visivo.
I vulcani e la cultura
Una delle cose affascinanti del film è anche la dimensione spirituale che accompagna l'osservazione di questa realtà. È stata presente fin dall'inizio?
Dal mio punto di vista, il film è sempre stato più antropologico che scientifico. È stata questa anche la molla che mi ha spinto ad essere coinvolto. Perché in realtà non ero soddisfatto dei vari documentari realizzati sui vulcani, per esempio quelli del National Geographic, perché si va ad esaminare l'aspetto catastrofico, non quella che è la vita intorno al vulcano. Popolazioni che vivono migliaia di anni intorno ad uno di essi sviluppano una mitologia che è particolare e nuova, che è diversa dalle altre. Per me è stato importante cercare di capire questo insieme di valori e credenze che si sviluppa attorno a loro, per vedere come la cultura di un popolo vi si adattano. Per esempio attraverso i racconti orali di alcune di queste popolazioni abbiamo potuto approfondire eruzioni del passato di cui non avevamo molti dati, andando poi a riscontrare scientificamente i loro racconti. Ci serve anche per capire come prevedere quello che può succedere e come comunicare con queste popolazioni per allertare in caso di emergenza. Mi ha colpito molto la testimonianza di uno dei loro capi, che si vede anche nel film, che racconta quello che ha visto nel cratere, descrivendolo come acqua ma rosso. Se ci pensate è il modo più spontaneo ed immediato con cui qualcuno senza una laurea in geologia può comunicare qualcosa del genere.
Le popolazioni che vivono sulle falde dei vulcani credono più facilmente all'esistenza dell'inferno?
Penso che ci sia una grande differenza in termini di esperienza tra chi cresce alle pendici del Vesuvio a Napoli o alle pendici di un altro pericoloso vulcano. Secondo me si genera un collegamento satanico con il mondo degli inferi, con quello che è sotto questi vulcani: i Merapi che vediamo nel film, per esempio, credono che gli spiriti dei defunti risiedano sotto il vulcano, e credono che si continui lì la propria esistenza, così come in vita, che per esempio chi è contadino sulla Terra lo è anche lì. C'è tutta una mitologia e una serie di divinità che proviene dal mondo dei vulcani. Abbiamo usato il titolo Inferno anche per la connotazione che il vulcano può dare, non solo per l'accezione occidentale che è legata a Dante.
Cosa ci puoi raccontare della parte in Corea del Nord? È stato difficile girare lì?
Ho lavorato cinque anni in Corea del Nord, inizialmente invitato da uno scienziato locale che mi aveva chiesto un contributo per un terremoto che si era tenuto dieci anni fa. Mi sono reso conto che il vulcano è parte integrante della vita quotidiana, per esempio vediamo spesso i due presidenti ritratti davanti ad esso. È in pratica un'icona culturale, d'altra parte è la montagna sacra della rivoluzione, i bambini negli asili cantano una canzone che dice "andiamo a scalare il monte Paektu!" È la profonda origine di questo popolo, che ritiene di essere venuto da lì circa 5000 anni fa. Ho portato avanti l'idea di girare in Corea del Nord e mi sono detto che se c'era uno che poteva farlo nel modo più limpido possibile, questo poteva essere Werner. E quello che abbiamo fatto riesce a dire qualcosa su quella società più di quanto avrebbe potuto fare un'indagine con telecamere nascoste.
Clive contro il vulcano
Personalmente ha mai avuto paura, anche se è il suo lavoro?
Naturalmente ho paura, anche perché la minaccia è più che tangibile, si tratta di avere a che fare con rocce incandescenti. Sono contento che il film sia stato portato qui perché l'Italia è il paese da cui è partita la mia formazione, ho iniziato alle isole Eolie, studiando Stromboli, ed ho fatto misurazioni sul cratere. La prima settimana fu tranquilla, ma la successiva le cose cambiarono, l'attività si fece più intensa e capii le difficoltà di quel lavoro, mi resi subito conto che la curva d'apprendimento è molto ripida. Posso affermare di avere una paura razionale dell'altezza e dei vulcani.
Cosa si porta dentro qualcuno come lei che fa queste esperienze per lavoro?
Da professionista sono molto concentrato sul gestire l'attrezzatura per le misurazioni e le altre necessità, ma una volta che è tutto sistemato, mi lascio prendere dall'ambiente che mi circonda, che l'esperienza mi entri dentro. Ed è un'esperienza multisensoriale, che stimola la vista, l'udito, l'olfatto, ma anche le vibrazioni che senti sotto i piedi. Il suono per esempio è un aspetto importantissimo, che abbiamo cercato di riprodurre con cura; per noi il fonico aveva la stessa importante del direttore della fotografia. Trovarsi sul cratere di un vulcano è un'esperienza molto forte, a volte in netto contrasto con l'elemento paesaggistico che lo circonda, come nell'artico. Non è un caso che io preferisca lavorare sul campo piuttosto che in laboratorio, là mi sento a casa.