Uno fra gli eventi televisivi della stagione, negli Stati Uniti, è stato senz'altro Show Me a Hero, la nuova miniserie di punta della HBO. Basata sull'omonima non-fiction novel di Lisa Belkin, Show Me a Hero racconta l'ascesa politica di Nick Wasicsko, il giovanissimo sindaco della città di Yonkers a partire dal 1987, interpretato da un bravissimo Oscar Isaac. A firmare la miniserie è David Simon, già autore del cult The Wire, insieme a William F. Zorzi, mentre la regia di tutti i sei episodi è stata curata da Paul Haggis, ospite del RomaFictionFest per la proiezione in anteprima della puntata d'apertura di Show Me a Hero.
Lo sceneggiatore e regista americano, autore di copioni quali Million Dollar Baby e Lettere da Iwo Jima e regista nel 2005 dell'apprezzato Crash - Contatto fisico, per il quale ha vinto due premi Oscar (miglior film e miglior sceneggiatura), ha incontrato il pubblico e la stampa al RomaFictionFest per una lunga masterclass: un'occasione per parlare di Show Me a Hero, che in Italia andrà in onda su Sky Atlantic a partire da martedì 17 novembre alle ore 21,00 ma anche del proprio lavoro in campo cinematografico, da Crash al reboot della saga di 007, e delle questioni sociali da sempre care ad Haggis.
Show Me a Hero: il razzismo nella società di ieri e di oggi
Paul Haggis, come sei approdato al progetto di Show Me a Hero?
È molto difficile parlare di questo argomento oggi, dopo gli eventi di Parigi. Sono arrivato al progetto l'anno scorso, mentre ero impegnato su un film indipendente che poi non è partito. David Simon mi ha imposto di accettare l'offerta prima ancora che leggessi il copione. Adoro il lavoro di Simon, The Wire è una serie magnifica, e volevo assolutamente lavorare con lui. Mi ha chiesto se avrei potuto dirigere uno o due episodi, ma dopo aver letto la sceneggiatura ho detto che volevo dirigerli tutti. È una storia gigantesca: parla degli immigrati, tocca una vicenda accaduta a New York pochi anni fa e che ci riguarda ancora oggi. Le persone di colore vengono tenute lontane dalla cosiddetta "area bianca", e si trovano sempre giustificazioni per mascherare la discriminazione dietro altre motivazioni.
Pensi che in televisione sia possibile affrontare argomenti che non trovano più spazio al cinema?
È una caratteristica meravigliosa dell'odierna televisione: sta facendo quello che il cinema indipendente faceva alcuni anni fa. Spesso nel cinema odierno non abbiamo più la possibilità di realizzare drammi a sfondo sociale: dieci anni fa è stato complicatissimo realizzare un film come Crash, oggi sarebbe addirittura impossibile. Ora l'unica cosa che i produttori vogliono è lo spettacolo, ed è difficile trovare spazio per altro. Questo è un dramma sulle case popolari: chi avrebbe mai voluto produrlo? Ma la HBO ha accettato la sfida e l'ha finanziato. E Show Me a Hero è una storia che non si limita solo all'aspetto politico, ma ci parla anche di chi siamo.
Il modello delle case popolari di Yonkers ha poi funzionato?
Le case sono state costruite e non ci sono stati problemi: gli immigrati si sono integrati perfettamente con la comunità, a dispetto delle proteste iniziali di molti abitanti. Ogni essere umano ha diritto alla propria dignità, rappresentata da una casa e dal rispetto delle altre persone, e questa è la base per ogni convivenza pacifica. Il modello di Yonkers ha funzionato benissimo, e dovremmo riprenderlo e usarlo.
Come selezioni i progetti a cui dedicarti?
Dopo Crash ho rifiutato tante proposte importanti, molte delle quali estremamente simili a Crash. Cercavo qualcosa di personale, qualcosa da poter dire sulla guerra in Iraq, ma al tempo stesso non volevo condannare le nostre truppe; così ho iniziato a interessarmi alle storie di reduci dall'Iraq. Mi sono chiesto, ad esempio, cosa accadrebbe se un bambino si piazzasse davanti alla jeep di un militare, obbligato ad avanzare sempre e comunque per non rischiare di cadere vittima di agguati: cosa faresti al suo posto? Travolgere il bambino o mettere a rischio la tua vita e quella dei tuoi commilitoni? Insomma, ho provato a usare il cinema per mettere il pubblico di fronte a scelte morali dilanianti: da qui è nato Nella valle di Elah.
Fra così tante tematiche politiche e sociali di stretta attualità, come scegli i soggetti di cui parlare nel tuo lavoro?
Hotel Rwanda è un film che mi ha commosso profondamente, e dopo la proiezione ho chiesto a Terry George come avesse fatto un regista irlandese a dirigere un film sul massacro in Rwanda; lui mi ha risposto semplicemente che nessun altro regista lo stava già facendo. Il nostro compito è proprio questo: raccontare storie che nessun altro vuole raccontare. Per esempio, nessuno studio voleva produrre Million Dollar Baby: chi mai avrebbe voluto vedere un film su una donna pugile? La stessa cosa mi è accaduta con Crash: chi avrebbe voluto vedere un film corale sul razzismo? Ma io non mi sono dato per vinto e ho insistito. È necessario perseverare, se senti la necessità di portare sullo schermo una storia che ti sta a cuore, che riguardi temi sociali oppure altri argomenti. Il nostro lavoro non dev'essere necessariamente semplice, ma se hai una passione per qualcosa, allora devi metterci tutta la tua determinazione.
Fra regia e scrittura, al cinema e in TV
Come hai lavorato per Show Me a Hero, dovendo dirigere sulla base di una sceneggiatura scritta da altre persone?
C'è stata una grande collaborazione con David Simon e William F. Zorzi: sono entrambi giornalisti e si sono trovati ad adattare il libro di un'altra giornalista, Lisa Belkin. Pochissime persone oggi affrontano gli argomenti portati a galla da David Simon, e prima di iniziare le riprese ho parlato a lungo con lui. Il cinema e la televisione sono un media che lavora sull'emozione, non solo sull'intelletto: devi far appassionare lo spettatore, altrimenti non entrerà in empatia con i personaggi. È come per Casino Royale: se il pubblico non si sente legato a 007, allora vedrà solo delle esplosioni. Prima di Show Me a Hero non avevo mai diretto qualcosa che non avessi scritto io stesso; trovandomi solo nelle vesti di regista, ho dovuto rispettare il lavoro degli sceneggiatori e capire come suscitare delle emozioni attraverso il loro copione. Nel secondo episodio c'è un'enorme rivolta popolare, e come regista tu hai l'obbligo di far sentire lo spettatore come se fosse lì, e non far sembrare l'intera scena un documentario. Pertanto ho scelto di far passare comparse e oggetti davanti ai protagonisti, nel corso di queste inquadrature, in modo da far sì che lo spettatore avesse l'impressione di trovarsi nella mischia e nella confusione. I produttori all'inizio erano nervosi, ma poi hanno compreso le mie intenzioni.
Nella sequenza in cui Nick Wasicsko sta festeggiando la vittoria delle elezioni, ascoltiamo lo squillo prolungato di un telefono che anticipa una scena successiva: era un riferimento alla responsabilità morale del protagonista?
David Simon voleva creare un senso di predestinazione: Wasicsko ha appena vinto le elezioni, ma c'è qualcosa che lo aspetta ancora prima che diventi sindaco, simboleggiata dallo squillo del telefono. Spesso la politica è connessa alla paura: specialmente in America, ma non penso sia diverso nel resto del mondo. La politica cerca sempre dei capri espiatori: oggi in America sono i messicani, domani potrebbe essere qualcun altro. Ciò che è accaduto ieri a Parigi ci fa capire che potrà solo andare peggio. Io sono stato cresciuto come cattolico, ma penso che uno degli insegnamenti più importanti di Gesù, "Ama il tuo nemico", suoni ancora adesso come una frase sconosciuta e incomprensibile perfino per i cristiani: invece dobbiamo ripartire proprio da lì.
Come si ottiene l'equilibrio ideale nel lavoro del regista televisivo, rispetto al lavoro in ambito cinematografico?
David è stato coinvolto in tutte le fasi della lavorazione, ma mi ha lasciato molta libertà, perfino di improvvisare in alcune scene, ed è stato meraviglioso lavorare in questo modo. Abbiamo un profondo rispetto l'uno per l'altro, mentre al cinema a volte il regista non rispetta il lavoro degli sceneggiatori; in TV, invece, c'è più equilibrio tra queste due figure. Come regista, devi raccontare una storia a livello visivo, senza limitarti a confezionare inquadrature eleganti. Il direttore della fotografia ha un ruolo importantissimo, ma il lavoro del regista è determinante per la portata emotiva del racconto. In televisione, ogni giorno devi girare fra le sei e le dieci pagine di copione, mentre nel cinema di solito giri due pagine al giorno. Ogni giorno arrivavo sul set di prima mattina, e il mio assistente era pallidissimo: gli chiedevo cosa fosse successo, e dopo qualche ritrosia mi elencava una lunghissima serie di difficoltà e di imprevisti, per esempio una strada occupata dal traffico. In televisione, però, non hai scuse, devi comunque portare a termine il lavoro giornaliero, quindi devi trovare il modo per far funzionare le scene... addirittura quando ti manca un attore. Per l'ultimo episodio, Oscar Isaac doveva girare una sequenza molto impegnativa dal punto di vista emotivo, ma non avevamo a disposizione la location adatta: lui avrebbe dovuto recitare in un set isolato, per concentrarsi meglio, e invece ci siamo trovati a dover girare circondati da parecchie persone. Allora mi sono rivolto a Oscar, che era molto preoccupato, e gli ho detto: "Oscar, tutto ciò che è importante, nella vita, accade sempre nel posto sbagliato: credimi!". E per fortuna la scena ha funzionato benissimo.
Come è nata la tua passione per il cinema?
Da piccolo, adoravo gli horror con Vincent Price e i film di Alfred Hitchcock. Poi, da adolescente ho visto tanti film della Nouvelle Vague e tante opere del cinema italiano, e mi sono detto: "Davvero è possibile raccontare le storie in questo modo?". Oggi non abbiamo più la pazienza per fare questo tipo di cinema, si sente il bisogno di spiegare tutto, ma a me piace che gli spettatori si sentano sfidati a capire cosa sta accadendo sullo schermo.
In qualità di sceneggiatore, ritieni che quello dello scrittore sia un mestiere solitario?
Mi piace lavorare da solo, ma ogni solitario in fondo desidera far parte di un gruppo. Anch'io sono così: sono un "introverso sociale". Prima di una cerimonia degli Oscar avevo invitato a casa mia varie persone candidate e ho organizzato un party fantastico, c'erano colleghi come Steven Spielberg e Oliver Stone. Era un party magnifico... ma poi, a un certo punto, mi sono chiuso nella mia stanza a guardare la TV, finché mia moglie non è venuta a tirarmi fuori di lì. Amo essere uno scrittore, sedermi in solitudine e ascoltare i personaggi che mi parlano: adoro questo processo creativo, è la sensazione più bella del mondo. Ma è anche una sensazione molto triste: a volte spendi ora a tentare di scrivere qualcosa che invece si rivela sbagliata o inefficace. Il set, invece, è divertente, anche quando sembra andare tutto storto: magari devi girare una scena ambientata in estate ma sta nevicando, e hai l'intera troupe rivolta verso di te, in attesa di indicazioni. Inoltre amo lavorare con gli attori.
Cosa ti spinge alla scelta di un attore?
Durante il processo di casting, cerco un attore che sia abbastanza coraggioso da essere vulnerabile e mostrarsi per chi è veramente. E gli attori devono riuscirci nello spazio di una semplice audizione... non so come diavolo ne siano capaci! Quando scrivo un copione, cerco di non pensare ad alcun attore: in caso contrario, mi ritroverei a scrivere pensando a qualche personaggio già esistente, mentre io voglio essere sorpreso dai miei personaggi. Il coraggio, negli attori, è una caratteristica molto sensuale. Carla Quevedo, che interpreta la moglie di Wasicsko, appariva come un esempio di miscasting: è un'argentina che interpreta un'americana, e i miei produttori erano increduli per la mia scelta. Ma io ho risposto loro che lei aveva una qualità particolare, e che sarebbe riuscita a spezzare il cuore del pubblico. Alcuni attori possono essere formidabili a teatro e pessimi sullo schermo, e viceversa: pertanto è sempre necessario sperimentare e cercare quelle qualità particolari indispensabili ai ruoli.
Paul Haggis e James Bond
Attualmente, James Bond è di nuovo nelle sale con il nuovo film della saga: rimpiangi di non aver preso parte agli ultimi capitoli della serie, dopo aver contribuito a ricreare il mondo di 007 come sceneggiatore di Casino Royale?
Certo che sono invidioso! È uno spettacolo fantastico, e guardando quei film penso inevitabilmente che avrei voluto farne parte. Ma questo accade anche con altre cose. Non ho ancora visto il film L'ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo, basato sulla vita di Dalton Trumbo, uno dei miei eroi personali: uno sceneggiatore che, negli anni del Maccartismo, si oppose a Joseph McCarthy ed ebbe il coraggio di mandarlo al diavolo. Quando ho saputo del film Trumbo, mi sono detto: "Accidenti, perché non ci ho pensato anch'io?".
Come ci si confronta con un personaggio come James Bond, che ha cinquant'anni di storia alle spalle?
Con James Bond, ho cercato di entrare nell'animo del personaggio e capire i suoi sentimenti: le sue reazioni nelle varie situazioni, il fatto che avesse il cuore spezzato. Mentre scrivevo il copione, mi chiedevo sempre cos'avrei fatto io se fossi stato al posto di Bond. Per esempio, mi sono domandato cosa avrebbe potuto far innamorare Bond: e ho realizzato che si sarebbe innamorato di una donna in grado di vederlo per come lui è veramente, di accettarlo e di amarlo così com'è. È divertente affrontare un personaggio con un background così vasto, bisogna tenere in considerazione moltissimi fattori, ma si può anche giocare con gli archetipi: ad esempio in Casino Royale, quando a Daniel Craig domandano se preferisca il suo Martini liscio o shakerato, lui risponde: "Cosa vuoi che me ne freghi?". Ho voluto delineare James Bond innanzitutto come essere umano, e soltanto dopo collocarlo nel suo mondo. Invece, non mi è stato mai chiesto di lavorare a un film di supereroi, ma mi piacerebbe molto... personalmente, adoro Batman!