Se fossimo dei caporedattori del Daily Bugle sicuramente stamperemmo in prima pagina a caratteri cubitali una domanda che di solito rivolgeremmo a un arrampicamuri di quartiere: "Christopher Nolan: eroe o minaccia?" che, parafrasando un pochino ed evitando esagerate boutades, potremmo modificare in "Christopher Nolan: genio del cinema o regista sopravvalutato?". Non c'è dubbio che a partire da Memento, o forse da The Prestige, o forse ancora da Il cavaliere oscuro, il nome di Nolan è diventato sinonimo di cinema di qualità, vero e proprio culto, per cui molti dei cineasti giovani e, soprattutto, molti degli spettatori adorano. Non abbiamo usato il termine "culto" a caso perché la sensazione è che i film di Nolan siano visti, sviscerati e considerati come delle vere e proprie opere messianiche, l'esempio migliore di cinema in senso assoluto. Non solo: con le sue idee innovative, la sua originalità, la sua regia che predilige la pellicola e l'IMAX rispetto al digitale e al 3D, Nolan è anche diventato sinonimo di sceneggiatore modello, un architetto di storie perfette che riescono a unire l'intrattenimento con una studiata e ragionata complessità. A farne le spese, in molte occasioni, è la partecipazione emotiva. È il caso di Interstellar, il kolossal fantascientifico del 2014, che soprattutto nel finale mette in mostra i difetti del cinema di Christopher Nolan, difetti che non rovinano completamente la visione, ma che dimostrano come lo sceneggiatore così accorto abbia poca fiducia nello spettatore e voglia unire due tipologie di cinema incompatibili tra loro, con risultati alterni: un cinema logico, razionale e freddo e un cinema più emotivo, caldo e umano.
80 minuti del miglior cinema possibile
Quando inizia Interstellar si ha sin da subito la sensazione di star assistendo a un film superiore rispetto alla media dei blockbuster e addirittura rispetto alla media del regista. Certo, nel 2014 eravamo già ben abituati alle capacità registiche di Nolan autore di film di successo entrati nella memoria collettiva (non serve citare la trilogia di Batman con il Joker di Heath Ledger, ma non dimentichiamoci nemmeno della trottola di Inception), ma sin dalle prime sequenze il film con Matthew McConaughey sembra usare un registro totalmente inedito per il regista inglese. C'è un respiro diverso nel racconto di un padre e di una figlia in un futuro in cui la Terra sta lentamente morendo, c'è un senso di meraviglia che ha un altro sapore rispetto a quello di una contemporanea Gotham City o del personale mondo dei sogni. Per dirla chiaramente: c'è più calore. A tratti sembra di vedere un film diretto dal miglior Steven Spielberg: bambini prodigio, uno sguardo sognante verso le stelle, un rapporto famigliare basato sull'amore, senso dell'avventura e dell'esplorazione che vogliono dimostrare come l'essere umano sia la miglior specie vivente possibile. Fino a quando, di ritorno dal primo pianeta, composto da un unico enorme oceano di onde gigantesche, il nostro protagonista Cooper piange guardando videomessaggi arretrati da 23 anni da parte dei figli, in una delle scene più magistrali del film, Interstellar, puntando di più sulle emozioni e non sulla logica, è il miglior film della carriera di Christopher Nolan.
Interstellar e il cinema di Nolan: in viaggio tra il sogno, la memoria e le stelle
Manomettere il tempo fino a fermarlo
I problemi iniziano nella seconda metà del film, quando il ritmo - fino a quel momento molto alto - rallenta per dare vita a un vero e proprio film dentro al film in cui Cooper e Amelia arrivano in un nuovo pianeta e devono vedersela con il dottor Mann. In quest'ora, tra dialoghi più costruiti e divagazioni sulla meccanica quantistica e teorie sulla relatività, il nuovo Nolan emozionale cede il passo a una sua già conosciuta versione razionale e cervellotica. Come già accaduto in Inception, che utilizzava tutta la prima ora del film per spiegare allo spettatore le regole del gioco a cui stava per assistere, anche Interstellar prova a spiegare in termini scientifici ciò che abbiamo assistito per la prima metà di film: l'amore diventa misurabile, le emozioni e i sentimenti si riescono a spiegare e, con l'onorevole tentativo di elevare gli argomenti trattati rendendo partecipi gli spettatori, il tempo (non usiamo questa parola a caso) del racconto rallenta fino a fermarsi. Come nel suo precedente blockbuster sul tempo del 2010, questa scelta di scrittura può risultare naturale e accettabile durante la prima visione, quando la novità e la sorpresa mascherano l'eccessivo didascalismo, ma paga dazio nel momento di una seconda visione.
Nel caso non fosse chiaro
Lo diciamo subito per fugare ogni dubbio relativo alle nostre possibili faziosità: il vero problema del finale di Interstellar non è l'incredibile messa in scena o lo straordinario talento registico di Nolan, ma la sua eccessiva esposizione. Se una regola aurea del cinema, proprio per la sua natura primaria di essere composto da immagini montate tra di loro, è il classico "Show, don't tell", non si può dire che a Christopher Nolan piaccia rispettarla. Quando il film potrebbe tornare sui suoi binari migliori, ritornando a raccontare la storia di un atto d'amore tra un padre e una figlia che diventa un atto d'amore per la salvezza dell'intera umanità, mostrando tutto questo in maniera chiara con una messa in scena che lascia a bocca aperta, nonostante tutto il film crei una tensione per arrivare proprio in questo momento narrativo (con tutta la potenza che ne consegue), Nolan sembra perdere fiducia nell'intelligenza del proprio pubblico e invece di far parlare le immagini fa parlare Cooper dandogli uno spiacevole aspetto narrativo che descrive esattamente tutto ciò che vediamo. La splendida musica di Hans Zimmer che si sposa a meraviglia con le immagini del buco nero in IMAX viene sommersa da una descrizione che toglie la magia, la poesia e, di conseguenza, la forza emotiva del momento. Cooper vede nero? Dirà ad alta voce: "E' tutto buio". Cooper vede dei libri? Dirà "Questi sono i libri". Persino quando, in un gioco tra presente e passato, risolviamo il mistero del fantasma di inizio film, Nolan non resiste a sottolineare didascalicamente quello che il film, solo grazie alle immagini (ed è un grandissimo pregio, sia chiaro), era riuscito a raccontare. Immaginate il finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo se, al posto di lasciare il racconto attraverso le immagini e la musica di John Williams, i personaggi fossero costretti a dire ad alta voce quello a cui stanno assistendo (e noi con loro). A questo punto la domanda sorge spontanea: ha senso costruire sceneggiature in maniera dettagliata, complicandole più del previsto, se poi manca la fiducia che il proprio pubblico possa comprenderle?
1917 e Dunkirk: la guerra secondo Sam Mendes e Christopher Nolan
Necessario? No, impossibile.
Sceneggiature da architetto, dove la complessità viene premiata da un risultato che non poteva logicamente essere che uno, secondo le regole più volte narrate all'interno del film? Non proprio, perché, come per Inception, la sensazione è che il prestigiatore che si vantava di usare solo dei trucchi abbia usato una macchina di Tesla. Ciò che in Inception era il limbo, l'abisso da cui non si poteva uscire, il game over definitivo, in Interstellar è il buco nero. Il viaggio dell'eroe Cooper, iniziato per il desiderio di salvare i propri figli, trova la naturale conclusione nel momento in cui si scopre essere il fantasma che lasciava messaggi in codice a sua figlia Murphy. Riuscire a salvare i propri figli si trasforma nel successo della spedizione a cui ha preso parte e, di conseguenza, nella seconda possibilità data alla specie umana (cosa che vediamo accadrà). Il viaggio nel tempo è stato possibile grazie all'amore (di Cooper per Murphy, degli umani del futuro per Cooper) e il compito del protagonista si dovrebbe concludere con il suo sacrificio: dal buco nero non si esce. Invece, per puro caso, Cooper riesce a uscirne e, sempre per caso, viene recuperato nello spazio vicino a Saturno. Lo stesso finale di Inception, dove Dom Cobb, una volta caduto nel limbo, riusciva miracolosamente a uscirne. Ma se nel film con Leonardo DiCaprio l'ultima inquadratura poteva lasciare la questione leggermente aperta lasciandoci con il perenne dubbio sul risveglio di Cobb, una scelta decisamente furba ma anche divertente e giustificabile, in Interstellar non ci sono ragioni per questo clamoroso e un po' stonato lieto fine. Certo, l'incontro tra una morente Murphy anziana e il suo giovane padre provoca qualche emozione in più e chiude definitivamente la promessa del padre ("Tornerò"), ma i due si erano già rincontrati attraverso il tempo e lo spazio nel buco nero, quando la Murphy adulta trova l'orologio ("E' tornato" dirà abbracciando il fratello dopo la scoperta).
Umano e non umano
Il cinema di Christopher Nolan è questo, un cinema composto da due facce e due modelli che raramente hanno modo di incontrarsi e che nel loro incontro si danneggiano a vicenda. Da un lato c'è la metà apollinea, quella di deriva kubrickiana, il freddo calcolatore alla ricerca della sceneggiatura "di testa", l'intellettuale che ragiona come un architetto scientifico, il burattinaio che procede da sempre con un discorso sulla manomissione del tempo, un punto di vista maschile, cerebrale e logico. Dall'altra parte la metà dionisiaca, quella che porta la firma di Spielberg, l'umanista affettuoso che racconta attraverso "la pancia", l'uomo comune alla ricerca dell'avventura, l'ordinario che si trova faccia a faccia con la meraviglia dell'ignoto e con l'inaspettato, pregno di una maternità sentimentale e calorosa. Nolan si trova in mezzo, in bilico tra il desiderio di emozionare e la natura scientifica del suo discorso, capace di regalare indimenticabili momenti visivi a eccessivi didascalismi con la parola. Un regista capace di realizzare i migliori labirinti possibili, ma senza lasciare che lo spettatore possa perdersi dentro e trovarne il centro da solo.