Durante la conferenza stampa di Inside Out 2 è stato chiesto a Kelsey Mann e al produttore Mark Nielsen il perché le nuove emozioni protagoniste trovino forma perfetta nell'approccio di Riley rispetto all'hockey. La risposta essenzialmente speculava sul legame della ragazza con il suddetto sport, di cui anche il padre è appassionato, come avevamo già visto nel primo capitolo, uscito nel lontano 2015. Con un'aggiunta importante, sottolineata da Nielsen: "Nello sport c'è molta ansia e pressione. Quando sei un ragazzino e vuoi entrare a far parte di un team, corri il rischio di essere tagliato fuori. Così l'hockey ci è sembrata una trovata adeguata per far manifestare le nuove emozioni di Riley". Un contesto che sembra marginale, ma che ha invece un aggancio fondamentale, offrendo al pubblico molteplici significati da poter cogliere.
Per questo, Inside Out 2 potrebbe addirittura essere una sorta di sport movie. Se di contesto si parlava, riassumiamo il plot in una riga: Riley sta affrontando quel periodo delicatissimo chiamato pubertà. Tutto è sovraesposto, così come le emozioni. E Gioia, Tristezza, Rabbia e Disgusto non bastano più per affrontare la vita. Un periodo di cambiamento acuito dalla sfida su cui si concentra la sceneggiatura di Meg LeFauve: Riley dovrà passare tre giorni in un campus estivo, con l'obbiettivo di entrare nella squadra di hockey delle superiori. Una gara, un torneo, un'ambita finale, il coach da conquistare, ricorrendo a tutti i mezzi possibili e immaginabili. Lo sport, a scuola, è preparazione didattica ma, anche e sopratutto, è preparazione alla vita stessa (il valore civile della scuola non dovrebbe mai essere secondario al valore pedagogico). Un paradigma perfetto, nonché lancio esplosivo per le nuove emozioni che prenderanno il controllo di Riely: Noia, Invidia, Imbarazzo, Ansia.
Inside Out 2, se la pubertà è una partita di hockey
Non è un caso, allora, che la sfida di Riley sia proiettata su uno sport di squadra: lo spogliatoio, le relazioni, le regole, gli allenamenti. Un equilibrio da trovare e mantenere. Termini e situazioni che sveleranno l'acerba personalità della protagonista (sempre più simile all'Andy di Toy Story, ma questa è un'altra storia), ritrovatasi fuori il tepore della sua zona di comfort (l'infanzia, la famiglia, le boy band da ascoltare senza vergogna, le amiche). Il passaggio tra pre-adolescenza e adolescenza, raccontato nel 28° film Disney Pixar, viene quindi cavalcato dalla brillante intuizione narrativa, che frullerà le emozioni in un percorso di crescita che rifletterà i paradigmi dello sport. Perché pensateci: praticare uno sport a quindici anni porta con se una valenza profonda, in grado di far emergere parte della propria personalità. Ed è quindi l'ansia (emozione strettamente contemporanea) a prendere il controllo di Riley, generando quel cortocircuito cinematografico che accende l'emotività di un'opera stratificata in grado di riflettere la continua stimolazione neuronale di una pre-adolescente.
Inside Out 2, la recensione: nuove (e colorate) emozioni per un sequel coerente e significativo
La retorica degli sport movies
In fin dei conti, non c'è nulla di più eccitante della competizione agonistica come sfida capace di scoperchiare le proprie convinzioni e i propri limiti. In questo senso, infilandosi tra i colori saturi di Inside Out 2, lo sport è il principale serbatoio emozionale di Riley, e specchio di una realtà che si allarga oltre lo schermo: praticare attività sportiva in determinati periodi della vita è fondamentale per bilanciare carattere, rapporti e predisposizioni. Un allenamento vale più di una partita, un passaggio vale più di un gol: dall'equazione, che calca la migliore retorica degli sport movie, il film di Kelsey Mann segue appunto le regole del genere, pur ribaltandole nel contesto animato che dà riverbero al romanzo di formazione cercato dagli autori. Non a caso, nel film ritroviamo le vibrazioni di alcuni film sportivi che hanno segnato gli Anni '90: Stoffa da campioni del 1992 (dove era protagonista una squadra di hockey giovanile) o Piccoli campioni datato 1994, con protagonista il mitico Rick Moranis, arrivando poi ad un classico di inizio Duemila, ossia Sognando Beckham.
L'emotività sportiva di Riley
Sfida ambiziosa, quella che si è prefissata il sequel di Inside Out: scavalcare i generi, ma intanto restando fedele ai loro archetipi. Lo aveva già fatto con Luca (anch'esso un coming of age) e con Elemental (vera e propria commedia romantica), lo rifà di nuovo, puntando ad una razionalizzazione analitica di quelle emozioni dirompenti, che trovano spazio e concetto nella filosofia sportiva. Un riverbero che si aggancia alla maturazione (o per meglio dire, alle nuove consapevolezze) di Riley, inserita in un contenitore (l'hockey) che riassume e al tempo stesso enfatizza la scoperta delle emozioni stesse.
In fondo non c'è nulla che riesce ad impattare in modo così diretto e così semplice sull'arcobaleno emotivo delle nostre personalità. Figuriamoci se la personalità in questione si sta formando, indecisa su quale persona voler essere. L'ansia della prestazione sportiva, l'invidia per il giocatore più bravo, la paura di sbagliare un rigore, l'imbarazzo per quella sgridata del mister, la gioia per un gol segnato. Un mix emozionale ben definito, e utile allo scopo di Inside Out 2: arrivare ad un pubblico il più ampio possibile. Come vuole la trentennale tradizione Pixar.