Scrivere la recensione di Inferno Rosso: Joe D'Amato sulla via dell'eccesso, presentato come evento speciale - di mezzanotte, per l'esattezza - alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia prima di debuttare in TV su Cielo, significa assistere alla resurrezione, sul piano della reputazione, di una delle firme più curiose ed eclettiche del cinema italiano. Parliamo di Aristide Massaccesi alias Joe D'Amato, regista (ma lui, come si vede anche nel documentario, preferiva definirsi "artigiano professionista") il cui nome d'arte - uno dei tanti, entrato nella storia perché quello usato più spesso - è associato soprattutto al cinema hard, che lui abbandonò dopo aver rischiato di andare in prigione salvo poi tornarci negli ultimi anni di carriera, dopo aver fatto anche commedie sexy, horror e molto altro. Un nome che fino a qualche anno fa rimaneva scomodo e poco apprezzato sul piano critico tant'è che sempre a Venezia, quando nel 2004 si decise di organizzare una retrospettiva dedicata ai registi italici "di serie B", D'Amato fu escluso perché ritenuto al di sotto di tale categoria (o almeno così dice Eli Roth, uno degli intervistati).
Percorso poliedrico
Nato nel 1936 e morto nel 1999, Aristide Massaccesi (nome che continuò a usare quando lavorava come direttore della fotografia, mestiere che ammetteva di preferire a quello del regista) cominciò a lavorare nel cinema negli anni Cinquanta, passando alla regia nel 1972 con diverse produzioni di genere, tutte firmate con pseudonimi dal suono anglosassone come si usava all'epoca, tra cui appunto Joe D'Amato. La svolta ci fu alla fine degli anni Settanta, con una serie di pellicole che mescolavano iconografie horror e sequenze di carattere pornografico, a volte in modo estremo (vedi Sesso nero e la famosa scena dell'evirazione), ma anche progetti horror più convenzionali come Antropophagus (che George Eastman, autore del copione e interprete del cannibale del titolo, ammette di aver ideato per avere delle entrate in più dopo aver sperperato i suoi compensi precedenti con il gioco d'azzardo, sfruttando la rapidità di D'Amato che in quel periodo girò titoli multipli nello stesso luogo in breve tempo, con storie diverse ma senza cambiare location e cast). Notevole anche la sua attività di produttore, in collaborazione con registi come Michele Soavi, Umberto Lenzi e Lucio Fulci.
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Soavi è tra le persone che appaiono in Inferno rosso: Joe D'Amato sulla via dell'eccesso, tramite interviste nuove di zecca o materiale d'archivio, insieme a cineasti come Ruggero Deodato e Tinto Brass, nonché ammiratori internazionali quali Eli Roth e Nicolas Winding Refn (il quale ha introdotto la proiezione veneziana con un video dove definisce D'Amato un cineasta unico). E poi ci sono i collaboratori, gli amici e i parenti (la figlia che ricorda ridendo come il padre fosse solito mostrarle le scene più estreme dei suoi film horror quando lei era piccola). Con una simpatica differenza tra italiani e internazionali: i secondi continuano a usare il nome d'arte, mentre per i primi il soggetto del documentario si chiamerà sempre e comunque Aristide, rivendicando un'identità che il da lui mai particolarmente amato mondo del porno (per sua stessa ammissione tornò a lavorare in quell'ambito solo per soldi) ha ingiustamente oscurato per anni. Ora, a ventidue anni dalla scomparsa del cineasta, è giunto il momento di riscoprirlo sotto una nuova luce.
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Archivio prezioso
Il lavoro fatto dai registi Massimiliano Zanin (già collaboratore di Brass e autore di un documentario su di lui, uscito nel 2013) e Manlio Gomarasca (co-fondatore e direttore della rivista Nocturno) è degno di interesse soprattutto per la qualità del materiale d'archivio impiegato, in primis una lunga intervista allo stesso Massaccesi che mette in evidenza il senso dell'umorismo e l'umiltà di un professionista ben consapevole dei propri limiti (vedi la già menzionata considerazione sulle sue doti registiche) e allo stesso tempo innamorato del suo percorso artistico, tra alti e bassi (l'apice è quando spiega la motivazione giuridica che si celava dietro la sua decisione di accantonare il mondo dell'hard qualche decennio fa). Un percorso che il documentario invita a riscoprire con nuove prospettive, lasciandoci con un parziale amaro in bocca solo perché con una durata di 70 minuti finisce sul più bello. Il che, trattandosi del ritratto di un cineasta che si era inventato dei porno insolitamente ricchi di spessore psicologico al di là del puro meccanismo di titillazione, è una sorta di simpatico paradosso.
Conclusioni
Chiudiamo la recensione di Inferno Rosso: Joe D'Amato sulla via dell'eccesso, documentario sul celebre regista italiano spiegando come sia un progetto che punta ad avviare la riabilitazione critica di un cineasta spesso sottovalutato, con un ottimo uso di materiale d'archivio e interviste inedite.
Perché ci piace
- L'uso dell'archivio è ottimo.
- Gli interventi di colleghi, parenti e amici sono molto interessanti.
- L'operazione è informativa, sincera e divertente.
Cosa non va
- Poteva esserci un po' più di spazio per ulteriori approfondimenti.