Omologazione. Quel processo - spesso irreversibile - che avvolge il pensiero attorno ad un'opinione che diventa comune, al netto della soggettività e della peculiarità. Succede spessissimo. Nella moda, nella musica, nella politica e nella società, e succede spessissimo al cinema. In particolar modo verso quei film definiti brutti. Che poi, cosa vuol dire brutto? Che cosa c'è dietro quest'aggettivo così vago, che non aggiunge nulla e dimostra pure una certa vacuità critica? Proprio l'omologazione, che spinge certi film nel baratro di un retaggio alcune volte ingiusto ed esagerato. La lista è lunga, ma uno è particolarmente rappresentativo. Figuriamoci oggi, con l'attesa a mille per un quinto (e chissà se definitivo) capitolo. Parliamo infatti de Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, quel quarto capitolo che, al netto del botteghino (facile, direte voi), non riscontrò il favore dei fan.
C'è però da dire che l'astio, nei confronti di Indy 4, diretto da Steven Spielberg (l'idea di un nuovo film è stata in piedi per tutti gli anni Novanta), è cresciuto poco a poco, di anno in anno. Di social in social. "Il quarto film non esiste!", si legge spesso. "Gli alieni? Che grande cavolata". "Indiana Jones non può sposarsi", altra tagline che si aggiunge al pensiero comune. Dunque, con l'arrivo di Indiana Jones e la Ruota del Destino diretto da James Mangold (Indiana Jones and the Dial of Destiny, titolo originale ben più epico), è arrivato il momento di rivalutare Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo, partendo da un presupposto fondamentale: l'epoca cinematografica in cui è uscito.
Il fattore legacy
Era il 22 maggio 2008, release mondiale dopo l'anteprima a Cannes. Chi scrive ricorda ancora l'estasi di quel biglietto acquistato al botteghino. Cresciuti con la voglia di essere forte e coraggioso come Harrison Ford, ritrovare al cinema il Dottor. Jones, che avevamo visto solo in VHS, era sinonimo di pura folgorazione cinematografica. Dopo la splendida sequenza iniziale costruita da Steven Spielberg mischiando Elvis Presley e l'Area 51, ricordiamo ancora lo stupore incredulo di poter rivedere Indiana Jones finalmente in azione. Un film in cui si alternava l'evoluzione dell'eroe all'avventura dura e pura, riabbracciavamo Marion Ravenwood e incontravamo suo figlio Mutt, assistevamo ad un'esplosione atomica (non scherziamo, Indy nel frigorifero è un must della saga e il confronto storico mette i brividi) e finivamo faccia a faccia con quegli alieni tanto cari alla mitologia cinematografica targata Spielberg.
Qualcuno, al netto di un ottimo spettacolo, iniziò a storcere il naso. C'è da dire che se escludiamo le pessime sequenze con le scimmie e con le formiche (avete ragione, sono ingiustificabili) Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo è un buon film in relazione al suo periodo cinematografico. Un periodo a metà, tra la fine ed inizio Millennio. Che vuol dire? Oggi ci sono infiniti titoli legacy, che seguono regole ben precise (a proposito di omologazione), invece vent'anni fa (o quasi) i tardivi sequel di film cult/capolavori stavano cercando una loro dimensione. Possiamo dire che Indy 4 è stata una sorta di prova, un movimento di avanguardia, il tentativo da parte di Hollywood di aprire una nuova stagione. Il pensiero va dunque a Indiana Jones e la Ruota del Destino, che esce in piena epoca legacy: ammiccamento verso i fan, rispetto dell'icona, attualizzazione del personaggio in funzione di un nuovo linguaggio.
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Gli UFO come ultima sfida
L'altro punto, riguarda i tanto bistrattati alieni. Una critica totalmente fuori binario visto il genere, visto il tono, visto gli autori che hanno creato la saga (dai papà di Star Wars e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo cosa bisogna aspettarsi?). Nella concezione dei fan il Dottor. Jones può incontrare un Guerriero Crociato vissuto secoli prima, ma non può studiare un teschio alieno (tra l'altro quei teschi esistevano davvero nelle civiltà precolombiane). Di conseguenza una delle critiche mosse è che Indiana Jones, con gli UFO, non c'entra nulla. E invece no, è stata un'intuizione voluta da Spielberg che, in un sequel bramato, ha espresso il desiderio di fondere i suoi presupposti narrativi. Sarebbe dovuto essere l'ultimo capitolo, il trionfo di Indy, maturato come uomo e come archeologo, ormai all'alba di un meritato riposo con tanto di fede al dito.
Insomma, l'ultima avventura, quella più assurda e incredibile. Che male c'era a scomodare gli alieni, emblema di mistero e fascino? Se poi riflettiamo su quanto l'archeologia, da decenni, studi possibili tracce extra-terrestri nei manufatti e nei reperti le accuse non stanno in piedi. E non stanno in piedi perché poi la saga di Indiana Jones si è sempre approcciata all'avventura come meraviglioso sinonimo di incredulità, di estasi, di adrenalina. Un uomo, cappello e giacca di pelle, a picchiar duro contro i nazisti, provando ad inseguire quella fortuna e quella gloria che lo hanno reso uno dei più grandi eroi cinematografici di tutti i tempi. Altro che omologazione...
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