Un'attesa sospirata, sognata, temuta. Mentre aspettavamo l'anteprima mondiale di Cannes 2023, ci sentivamo proprio come un sudatissimo Dottor Jones all'inizio de I predatori dell'arca perduta, quando si ritrova davanti l'iconico idolo d'oro. Lo studia, valuta il peso. Ad occhio, a sensazione. In mano un sacchetto di sabbia, che dovrebbe bilanciare il peso del prezioso tesoro. Quel Tempio peruviano, lo sa bene Indy, è pieno di trabocchetti, di pericoli, di trappole. Bisogna essere ponderati, senza farsi prendere dalla bramosia del momento. Un po' come la vita stessa: un passo alla volta, ma con quel pizzico di spregiudicatezza necessaria per dare un senso all'avventura. Una scena straordinaria, per tensione e architettura, capace di racchiudere l'essenza del personaggio creato da Steven Spielberg e George Lucas.
Così, prima di lanciarci (letteralmente) in Indiana Jones e il Quadrante del Destino (qui la nostra recensione), per un istante abbiamo ripensato a quella diapositiva. Lì, dove tutto è iniziato, e per un istante appena abbiamo provato la stessa spasmodica attesa provata da Indy. Un'attesa sospesa tra l'eccitazione e la paura. Perché ogni finale - figuriamoci questo finale - porta con sé un carico di aspettative enormi, che finiscono per confondersi con la nostra memoria, un po' fardello e un po' crogiolo dove rifugiarsi quando si ha bisogno di certezze. E Indiana Jones, culturalmente parlando, è una certezza. Il punto d'arrivo e il punto di partenza per un certo cinema pop; la mitizzazione del linguaggio, della figura, della silhouette stringata: un cappello di feltro e una giacca di pelle consumata più dai chilometri che dagli anni. Tutto qui. Basta questo per creare la favola.
Quando il cerchio si chiude
Una totale riconoscibilità, che ha segnato gli anni Ottanta (I predatori è del 1981) e le decadi successive, imponendosi come eroe trasversale e senza tempo. Se i ricordi sono una ghigliottina, oggi il (gran) finale raccontato da James Mangold in Indiana Jones e il Quadrante del Destino ci riporta indietro con i ricordi. Guarda caso, proprio come racconta il film stesso, giocando con l'unica cosa che Indy non può afferrare: il tempo. Allora, prima che tutto finisca, risale in testa un momento tornato magicamente vivido: chi sta scrivendo, il primo contatto con Indy lo ha avuto in videoteca. Primi anni Novanta, nella vetrinetta di un piccolo videonoleggio svettava il faccione di Harrison Ford sulla copertina di una VHS dal titolo decisamente attrattivo per un bambino: Indiana Jones e il tempio maledetto.
Noleggiato e poi (ovviamente) comprato, il secondo film della saga (che era un prequel) accese il sogno, tra miniere infuocate e ponti sospesi. Accese ciò che avevamo potuto solo immaginare. Un'immaginazione diventata un'entusiasmante realtà. E dunque, ora che il cerchio si chiude, e la visione ha avuto il giusto tempo per decantare, possiamo scriverlo nella nostra riflessione: Indiana Jones e il Quadrante del Destino è forse il miglior finale possibile. O almeno, è quello che più rispetta i nostri ricordi, a sua volta facendone una sorta di punto di riferimento.
Indiana Jones e il Quadrante del Destino, Harrison Ford: "Anche Indy ha paura del tempo"
La storia di un eroe
Una scrittura che parte dalla memoria e finisce con la memoria. Perché Indy 5 è forse il primo e unico capitolo della saga a non essere un film di regia, puntando piuttosto sulla sceneggiatura. I motivi sono due: James Mangold è un bravo regista, ma non è Steven Spielberg. E poi, motivo ancora più nevralgico, l'età con cui Harrison Ford ha affrontato il set: le acrobazie e i colpi di frusta, pur presenti, lasciano spazio alla ragione e alle parole. L'azione, tipica della saga, viene delegata. Indy, ammaccato e disilluso, ritrovato in una New York City vestita a festa per il ritorno degli Astronauti dalla Luna, è una leggenda stropicciata in un mondo analogico che sta per passare la mano al digitale, al progresso, al futuro. Se il passato annoia, è la prospettiva futura a stimolare.
Insomma, la vecchia lezione che l'archeologia si studia all'università è un retaggio ormai superato. E il futuro, contestualmente al film, è proprio un doppio passato che ritorna: i nazisti, imborghesiti ma sempre spregevoli, ed Helena Shaw, interpretata da Phoebe Waller-Bridge, ex bambina ossessionata dal Dottor Jones e ora erede teorica (per spirito e azione) di quell'archeologo dal sorriso sghembo. Del resto, ogni finale è anche una questione di eredità. Ciò che si lascia e ciò che si tiene, a spasso lungo una storia che ci conforta da oltre quarant'anni. Una storia che ci coccola, che ci emoziona, che ci galvanizza: dalla marcia musicale di John Williams alle folgoranti e sfumate citazioni dei precedenti capitoli. L'appartamento di Henry Jones Jr., fateci caso, nel film di Mangold è una sorta di mausoleo dell'intera saga: le foto di Marion ormai sbiadite, le foto di quel papà che citava Carlo Magno, la raffigurazione del celebre cavaliere crociato con il Santo Graal. C'è tutto.
Accenni e sfumature, concentrate in una resa dei conti capace di reinventarne la figura: Indiana Jones e il Quadrante del Destino rispetta il mito e consegna letteralmente alla storia uno dei personaggi più influenti del Novecento, sfocando il confine tra realtà e finzione. Così, se dovessimo scegliere un solo momento del film, affiancandolo alle altre memorabili scene del franchise (e lo diciamo sottovoce: tra le nostre preferite c'è il frigorifero di Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo!), quello non può che essere che il folle e sbilenco incrocio tra Indiana Jones e Neil Armstrong. Un fugace sguardo sulla Fifth Avenue e lo stupore dell'astronauta. Perché forse solo uno come Indiana riesce a battere in grandezza il primo uomo che ha messo piede sulla Luna. Allora sì, ecco che tutto cambia: il tempo per Indy si dilata, si annulla. Non è più un nemico, anzi. Del resto, è chiaro: nemmeno l'orologio può tenere il passo di un mito che non conosce fine.