Ci sono film che non sono solo dei marchi. Film il cui titolo non è solo un semplice nome del personaggio, ma una vera e propria descrizione di un genere. Indiana Jones non è solo il nome del personaggio interpretato da Harrison Ford nel corso di quattro film diretti da Steven Spielberg e scritti da George Lucas. È il nome del cinema d'avventura, quello moderno e intramontabile che, a distanza di 40 anni dal primo film, non smette di appassionare vecchie e nuove generazioni di spettatori. Un vero e proprio mito cinematografico, capace di unire il divertimento dei fumetti d'avventura degli anni Trenta, anche con un piacevole stampo un po' naïf, con uno stile di regia fresco e moderno. Il risultato parla da solo: Indiana Jones è una di quelle saghe immortali che sembra non invecchiare mai. Alla ricerca dei reperti archeologici di origine leggendaria, Indiana Jones entra a far parte di quella stessa mitologia che lo pone al di fuori del tempo, diventa egli stesso un reperto prezioso e mitico. Con una propria storia da riscoprire. Occasione veramente unica, quindi, per celebrare il personaggio di Lucas e Spielberg, l'uscita del nuovo cofanetto in Blu-ray 4K da collezione targato Paramount e distribuito da Koch Media. Grazie ai nuovi restauri e alla qualità maggiore data dall'UHD, la saga è disponibile dall'8 giugno sia in digipack con all'interno una mappa da collezione e sia in edizione steelbook. Abbiamo deciso di ripercorrere i 40 anni di un mito in 4 scene memorabili, una per ogni film della saga, cercando di trovare la più iconica e la più significativa, da riapprezzare e riscoprire, come fosse la prima volta, grazie alla bellezza del 4K.
I Predatori dell'Arca Perduta
Non potevamo che partire dall'inizio di tutto. Benché ci siano parecchie sequenze diventate cult, la miglior descrizione del personaggio avviene proprio nel momento della sua prima apparizione. I primi 13 minuti de I predatori dell'Arca Perduta sono un perfetto prologo, adrenalinico e spettacolare, che ben presenta tutto ciò che rende Indiana Jones unico e inimitabile. È la prima figura umana che entra nell'inquadratura, ma quel genio di Steven Spielberg decise di posticipare il più possibile il suo volto, come si faceva con i divi del cinema classico. In questo modo in Indiana Jones è già presente quell'aurea mitologica che può solo consacrarsi. Anche il modo in cui Harrison Ford costruisce il personaggio richiama i sorrisi di Humphrey Bogart, così come la trama del film ha quell'ingenuità avventurosa dei film hollywoodiani di Raoul Walsh. E in questo prologo c'è tutto il repertorio che verrà poi affrontato nell'ora e mezza successiva: le trappole, gli idoli d'oro, i luoghi esotici, un eroe dedito al bene (nel caso del signor Jones non è un ladro di gioielli, ma un archeologo che vorrebbe i tesori esposti in un museo). Ma soprattutto un eroe imperfetto, a metà strada tra il cinismo del duro tutto d'un pezzo e le debolezze dell'uomo comune (d'altronde il nostro è anche un professore universitario). Tra tradimenti, doppi giochi, nemici che lo ostacolano, massi rotolanti da cui fuggire e un cappello da tenere sempre ben saldo sulla testa, I predatori dell'arca perduta ci catapulta fin da subito in un universo old style dove vige una sola parola d'ordine: l'avventura!
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Indiana Jones e il tempio maledetto
Il capitolo più cupo e maturo, quello in cui si mette in crisi il mito del protagonista. Indiana Jones e il tempio maledetto sembra voler far iniziare un percorso di riappropriazione dell'identità dell'eroe, riscoprendo i suoi valori. Non è un caso che nella scena iniziale del film, così debitrice del cinema di spionaggio di James Bond, Indiana Jones sembri un altro personaggio rispetto al primo capitolo della saga. E infatti le vicende di questo secondo film sono ambientate nel 1935, un anno prima della ricerca dell'Arca dell'Alleanza. Non sorprende, quindi, che durante l'avventura più sanguinaria che il nostro archeologo è costretto a vivere, si riscopra in lui un sentimento più infantile e bambinesco. La scena più memorabile avviene poco prima del finale. All'interno del Tempio del Male, luogo di culto in cui si compiono sanguinosi riti in nome della dea Kali, piccoli bambini del villaggio limitrofo sono costretti a lavorare nelle miniere alla ricerca delle pietre sacre. Indiana Jones è stato drogato, ma si è risvegliato in tempo e ha combattuto contro chi lo stava tenendo imprigionato. È il momento di liberare tutti i bambini schiavizzati. Il momento è solenne: a petto nudo e, quindi, spogliato degli abiti a dimostrazione di essere prima di tutto un uomo in carne e ossa, Indiana riceve il suo iconico cappello da Shorty. È il momento di fuggire, insieme ai bambini. L'eroe, che è allo stesso tempo uomo e bambino, diventa un novello Peter Pan a capo di alcuni "Bambini Smarriti" mettendo in luce quell'animo puro e luminoso che contrasta le oscurità del tempio maledetto. Ed è proprio liberando i bambini dalle catene che il film stesso torna ad essere l'Indiana Jones che abbiamo amato nel primo capitolo: rocambolesco, divertente, fantastico. Il nostro fanciullino è di nuovo appagato.
Indiana Jones e l'ultima crociata
A questo punto non sorprende che il bambino debba in qualche modo fare i conti con la crescita e affrontare definitivamente il rapporto conflittuale che ha con il padre. Un padre che qui ha il volto di Sean Connery, creando un simpatico collegamento con il prologo del secondo film (in cui Harrison Ford indossava un abito bianco che richiamava quello di James Bond). Ma è anche il film il cui inizio racconta le origini del mito: da dove nasce la paura per i serpenti, come ha imparato a usare la frusta. Al centro del film la ricerca del Sacro Graal, un oggetto così mitologico da richiamare il mito dei poemi cavallereschi e, di conseguenza, da un punto di vista cinematografico hollywoodiano, il mito del western. Non sorprende che L'ultima crociata sia il capitolo preferito dal regista, la cui poetica sul rapporto padre-figlio all'interno della sua filmografia occupa un ruolo predominante. Per questo motivo non possiamo che citare la scena dell'epifania. "Il vero Graal ti donerà la vita" viene detto dal cavaliere. Il nostro eroe sceglierà il Graal, ovviamente. Ma non la coppa dorata appartenente alle leggende. "Junior" (così come lo chiama il padre) sceglierà il Graal fatto di sangue, forgiato con l'amore e l'affetto. Lascerà cadere la coppa mitologica per salvare suo padre, ricostruendo quindi quel rapporto che sembrava perduto. L'archeologo che avrebbe rischiato la vita per l'oggetto si scopre, quindi, adulto e meno infantile. È un figlio che trova la sua dimensione e, di conseguenza, cresce. Quell'inquadratura finale dei quattro cavalieri che galoppano verso il tramonto chiude quella che era nata come una trilogia nella maniera più classica possibile: gli eroi verso la luce del sole, un elemento luminoso che per Spielberg è simbolo di vita.
Indiana Jones e il regno del teschio di cristallo
Dall'essere figlio a essere padre. Siamo nel 1957 e Indiana Jones sembra essere invecchiato, o per meglio dire, fuori tempo massimo. Non nascondiamo che il quarto capitolo della saga, uscito nel 2007, è anche quello ad oggi più criticato. Eppure è, allo stesso tempo, impossibile odiare una storia che rispetta tutto ciò che il personaggio ci aveva offerto fino a quel momento, proprio a partire dalla sua senilità. Sono passati vent'anni, ma Indiana Jones non ha perso un'oncia del suo fanciullo interiore, non si vergogna di essere fuori dal tempo. Il film rispecchia questo corto circuito: è un film d'avventura e d'azione "vecchio stampo" in confronto alla trasformazione di quel tipo di cinema della seconda metà degli anni Duemila, è quasi un reperto archeologico che fuoriesce da quel magazzino di casse della prima scena (è anche il film in cui la montagna della Paramount diventa una montagnola di terra da cui compare una marmotta, da sotto il suolo, come uno zombie) e mette al centro ancora una volta il rapporto padre-figlio, ma a ruoli invertiti. Ora è Indiana Jones il padre ed è il ragazzino interpretato da Shia LaBeouf, il figlio Henry Jones III, a rappresentare la modernità. Non è casuale, quindi, la presenza degli alieni alla base dell'avventura, una presenza fantasy più ingombrante rispetto al solito (sebbene mai mancata all'interno della saga) che rappresenta al meglio l'alienazione di un eroe in un tempo che non è più il suo. Tutto il film lascia presagire una decisione drastica: appendere il cappello al chiodo e passare il testimone alle nuove generazioni. Ma è proprio nell'ultima scena del film, quella che abbiamo scelto, che Indiana Jones conferma ancora una volta la sua unicità, la sua appartenenza al mito, non ereditabile. L'uomo è diventato talmente cresciuto da decidere di sposarsi con Marion, segno inequivocabile di un cambiamento decisivo nella propria vita: non più un eroe solitario ma un padre di famiglia, allo stesso modo accettato dal figlio. Le porte della chiesa si spalancano, un forte vento fa volare l'iconico cappello nelle mani di Henry, quasi come se il destino avesse deciso. Proprio mentre lo sta per indossare, Indiana gli leva il cappello dalle mani e lo indossa. Un momento che non solo ricorda quella scintilla infantile che da sempre anima il personaggio, ma che ne sottolinea l'assoluta verità: solo Harrison Ford può essere Indiana Jones.