In un concorso cannense che prometteva meraviglie ma che invece non è stato in grado di regalarci grandi entusiasmi non è difficile capire perché un film come In the Fade di Fatih Akin abbia ricevuto tanti applausi al termine della proiezione stampa: quando arrivano gli ultimi giorni di festival, un film di genere che riesca ad essere avvincente per tutta la sua (breve) durata è visto come una vera e propria benedizione dal pubblico ormai stremato e molto poco disponibile (soprattutto alle prime ore del mattino) ad un cinema più complesso, profondo e magari criptico.
Il film con Diane Kruger protagonista è invece semplice e lineare e si divide in tre atti: il primo racconta del terribile attentato che costa la vita al marito e al figlioletto; il secondo il processo ai danni dei due giovani (neo)nazisti che l'hanno portato a termine; il terzo la ricerca impossibile di una qualche giustizia e di una sensazione di appagamento e chiusura. Se, come detto, il film riesce comunque ad essere sufficientemente coinvolgente per tutta la sua durata, quello che manca al film è una direzione precisa, una maggiore profondità nei (tanti) temi che accarezza ma che finiscono con il rimanere sempre e solo in superficie.
Vendette senza gloria
Perché se è vero che, come si scopre sui titoli di coda, con questo film il regista di origini turche ha voluto rendere omaggio a tutte le vittime di odio razziale che ci sono state in Germania nell'ultimo decennio, è altrettanto vero che da un autore come Akin che ha in passato è stato in grado di raccontare come pochi altri le difficoltà di integrazione socio-culturale dell'Europa è assolutamente lecito pretendere di più. Pretendere che un argomento del genere non possa essere solo la scusante per un thriller di così poca rilevanza politica. Soprattutto in questo periodo storico dove, purtroppo, gli attentati non sono mai una questione privata, ma di pubblico interesse.
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Il conflitto, che pur a tratti emerge in alcune sequenze soprattutto familiari, viene sempre accantonato per tornare al dramma della protagonista, una pur brava Diane Kruger non aiutata dalla sceneggiatura, ma incaricata di caricarsi sulle sue spalle l'intero film e rappresentare tutto il dolore, il senso di perdita e di impotenza di una donna che non ha altro di cui vivere se non la ricerca di quella giustizia che le è stata negata. Ed è così che il finale del film - poetico e catartico per alcuni, reazionario e ingiustificabile per altri - sembra esistere solo per far discutere, piangere o arrabbiare, ma non per creare mai un reale dibattito o per trasmettere il tarlo del dubbio a chi le idee precise al riguardo di una questione così delicata già ce le ha. E quindi un film (d'autore) del genere a chi o cosa serve?
Movieplayer.it
2.5/5