In nome di Daniel
Karachi, Pakistan. Siamo nel 2002, la guerra degli Stati Uniti contro l'Afghanistan è da poco terminata ma sono tantissimi i cronisti statunitensi ancora di stanza in Medio Oriente. Tra questi vi sono i coniugi Daniel e Mariane Pearl, entrambi giornalisti, lui per il Wall Street Journal, lei come freelance. Sono felici, in attesa di un bambino, ma un giorno Daniel esce di casa - deve andare ad intervistare un leader religioso per un suo articolo legato al terrorismo e ad Al Qaeda - per non farvi mai più ritorno.
Basato sul libro autobiografico della stessa Mariane, intitolato appunto A Mighty Heart: The Brave Life and Death of My Husband Danny Pearl, il film di Michael Winterbottom può vantare una solida sceneggiatura ad opera del promettente John Orloff (già vincitore di un Emmy per Band of Brothers) che parte dal giorno della sparizione di Daniel e segue il vano tentativo di salvataggio ad opera della moglie grazie all'aiuto delle autorità locali, dell'FBI e degli appelli dell'intera comunità internazionale. Daniel morirà soltanto pochi giorni dopo, ma i tentativi della polizia e del gruppo anti-terrorismo pakistano dureranno molto più a lungo, fino a quando, davanti all'evidenza di un video che mostra la decapitazione del giornalista, Mariane e i suoi compagni dovranno accettare l'evidenza e porre fine alle loro ricerche.
Il punto di vista è quello di una Mariane Pearl incinta di cinque mesi che non può e non vuole arrendersi ma continua a ripensare all'ultima volta in cui ha visto il marito e ai momenti felici passati insieme a lui. Intervallati a questi frequenti flashback vengono mostrate le ricerche condotte dalla polizia, con tanto di arresti e interrogazioni, tutti girati con uno stile asciutto e quasi documentaristico. Molto bravo tutto il cast, a partire dalla star Angelina Jolie che ha fortemente voluto e creduto in questa parte (Brad Pitt, da parte sua, si limita a produrre) e che è affiancata e supportata da comprimari perfettamente in parte, tra cui spicca l'indiano Irrfan Khan, già visto in Il destino nel nome - The Namesake.
L'operazione di Winterbottom ricorda per molti aspetti il precedente The Road to Guantanamo (premiato per la miglior regia a Berlino nel 2006), ma mentre lì si ricreava la realtà ripercorrendo i fatti dei veri protagonisti della tragica avventura di tre innocenti arrestati e spediti nella prigione americana su suolo cubano, qui ci troviamo di fronte ad un lavoro meno televisivo nell'aspetto e nelle caratteristiche ma comunque estramente fedele nei dettagli e nella ricostruzione agli avvenimenti di cinque anni fa. Winterbottom continua a dimostrarsi regista di grande polso e dotato di notevoli capacità tecniche, ma anche estremamente furbo nella scelta di argomenti che gli garantiscano una facile presa su pubblico e critica. Da un regista che ormai ha raggiunto la notorietà e il plauso dell'intero panorama internazionale, sarebbe forse lecito aspettarsi un po' più di coraggio e volontà di rischiare.
Movieplayer.it
3.0/5