Che strano scrivere una recensione retrodatata. È strano perché oggi, un film come In fondo al cuore, diretto dall'onesto mestierante Ulu Grosbard, sarebbe forse avvolto da un'aurea thriller, divincolandosi dalle marcate pieghe melodrammatiche, che tanto piacevano al pubblico degli Anni Novanta. In fondo, è una questione di prospettive: un certo cinema, fino a tre decenni fa, era spesso scevro dalle sfumature. O tutto bianco, o tutto nero. Ora, la scala dei grigi ha probabilmente preso il sopravvento (vedi alla voce postmodernismo), ma (ri)vedere quel cinema (che per molti è il cinema della memoria, quello con cui sono cresciuti) diventa un esercizio di ricordi capace in qualche modo di emozionare, e di confortare.
In questo caso, ad aiutarci nello spolverare la nostra memoria c'è Netflix, che inserisce nel suo catalogo proprio In fondo al cuore di Grosbard, tratto dall'omonimo romanzo del 1996 di Jacquelyn Mitchard. Un bestseller tra i più identificativi degli Anni Sessanta, in quanto è stato il primo selezionato da Oprah Winfrey per il suo segmento letterario Oprah's Book Club, all'interno di The Oprah Winfrey Show. Insomma, il tripudio dei 90s. Quei 90s che tornano, e su cui indugiano le top 10 streaming, le bacheche della piattaforme. Tutto è ciclico, tutto torna. Del resto, il filo conduttore del film sono le emozioni (perse e ritrovate), quelle stesse emozioni che non hanno data di scadenza, ma che anzi risultano funzionali in un'epoca velocizzata al massimo. Allora, scrivere la recensione di un film che arriva da un'altro pianeta, e spolverato dal pubblico grazie a Netflix, diventa un esercizio stimolante, in cui possiamo mettere in parallelo le inflessioni contemporanee con la comfort zone delle nostre trapassate (e amate) visioni.
In fondo al cuore e la prova di Michelle Pfeiffer
Innanzitutto, In fondo al cuore (The Deep End of the Ocean, titolo originale) è un film di scrittura. La sceneggiatura è firmata da Stephen Schiff, che ha fatto parte della redazione del New Yorker fino al 2003, nonché autore di Lolita di Adrian Lyne e successivamente di Wall Street - Il denaro non dorme mai, e pure sceneggiatore della puntata 7 di Andor. Una carriera strana, variegata, e segnata dal film di Ulu Grosbard. Un film che, a dirla tutta, è stato accolto maluccio dal pubblico dell'epoca, incassando appena 28 milioni di dollari in tutto il mondo. A proposito di scrittura, la storia ruota attorno a Beth Cappadora, interpretata da una grande Michelle Pfeiffer (siamo o non siamo nel 1999?).
È sposata con Pat (Treat Williams) e ha due figli, Ben (Ryan Merriman), di tre anni, e Vincent (Jonathan Jackson), di sei. Un giorno, durante una festa, Beth perde di vista Ben. Lo cercano ovunque, ma il bambino sembra sparito nel nulla, e a nulla servono le indagini di Candy Bliss (Whoopi Goldberg, ma l'idea originale era farla interpretare proprio da Oprah Winfrey). Beth cade in depressione, il matrimonio con Pat si incrina. Poi, all'improvviso, l'inaspettato: nove anni dopo bussa alla sua porta un bambino, che si chiama Sam. Ha qualcosa di famigliare, di conosciuto. E se fosse proprio il suo Ben?
Gli 80 migliori film da vedere su Netflix a Maggio 2023
La trama, come punto di partenza
All'epoca dell'uscita il concetto di spoiler era molto relativo, oggi nel raccontarvi In fondo al cuore dobbiamo e vogliamo fermarci un passo indietro, prima di rivelarvi chi sia davvero Sam. Del resto, il film stesso gira attorno a questa svolta, che potrebbe suggerire il più classico thriller psicologico. Eppure, Ulu Grosbard, che ha mollato il cinema dopo il suddetto film, concentrandosi su Broadway, spinge il tutto verso il dramma famigliare, e sulle performance degli attori. Su tutti, una consumata Michelle Pfeiffer, divorata da un dolore sospeso che, scena dopo scena, muterà forma in qualcos'altro, che cambierà la sua prospettiva e anche un po' la nostra.
Impreziosito dalla colonna sonora di Elmer Bernstein, e dalla fotografia patinata di Stephen Goldblatt, In fondo al cuore è n film asciutto, semplice nella sua struttura, dritto nell'esplorare i sentimenti dei personaggi, scombussolati da un figlio/fratello perso, e da un figlio/fratello chissà ritrovato. Comprendiamo i motivi del flop del 1999 (il cinema stava cambiando, tuttavia sfruttava/soffriva di linguaggi in quel momento già superati), e comprendiamo i motivi per cui lo streaming gli ha dato una seconda possibilità: una pellicola (non un sinonimo di film, in questo caso) che incuriosisce dalla trama. Può sembrare qualcosa di scontato, di semplice. Eppure, è la dimostrazione di quanto a fare la differenza, alcune volte, sia ancora il caro vecchio soggetto. E il soggetto di In fondo al cuore allineato sulle ossessioni di una madre travolta, e sulla misteriosa sparizione del suo bambino, sembra avere le carte in regola per essere riscoperto, e per riscuotere (almeno in Italia) ciò che aveva lasciato in sospeso.
Conclusioni
Come scritto nella nostra recensione di In fondo al cuore, il film con una grande Michelle Pfeiffer ci riporta alla fine degli Anni 90, quando erano ancora (più o meno) stabili le regole di genere. Per questo, tornato oggi su Netflix, ci accorgiamo di quanto quel cinema fosse strutturato nel modo più dritto possibile (forse un po' troppo), puntando parte del gioco sul concetto di trama.
Perché ci piace
- Michelle Pfeiffer.
- La trama!
- La colonna sonora.
- Un film dritto...
Cosa non va
- Oggi, forse un po' troppo.