Recensione La parola ai giurati (1957)

La regia di Lumet è trascinante e semplicemente geniale nel comporre le inquadrature sui giurati: li avvolge in fluidi piani sequenza, li scruta dagli angoli della stanza, li appaia e li separa, e poi passa ai dettagli, e li rivela.

Il valore del dubbio

Sei giorni di processo per un caso di parricidio, e i dodici giurati stanno per ritirarsi per decidere il destino del giovanissimo imputato. Il giudice ricorda loro la grande responsabilità che il sistema ha deposto sulle loro spalle di persone qualunque: l'accusa è di omicidio di primo grado, in caso di verdetto di colpevolezza la condanna sarà per legge alla sedia elettrica.

Ma l'accusa è stata molto convincente, e apparentemente nell'animo dei giurati non c'è spazio per il "ragionevole dubbio": al voto preliminare, dopo che la giuria è stata segregata in una torrida sala del tribunale, undici uomini sono già persuasi che l'imputato sia colpevole. Il dodicesimo, il giurato numero 8 (Henry Fonda) , crede che la vita di questo ragazzo valga almeno una discussione, e rifiuta di appoggiare la maggioranza, irritando ovviamente coloro che speravano di liberarsi in fretta dalla seccatura senza mettere in gioco la propria coscienza. Il giurato numero 8, al contrario, l'ha messa in gioco sin dall'inizio del processo, ha ascoltato le testimonianze con senso critico e attenzione ai particolari, e anche se non sa se il giovane è colpevole o innocente, sa che il difensore di ufficio ha fatto un lavoro svogliato e mediocre, perché ha controinterrogato senza porre "le domande giuste". Lui, il giurato numero 8, se le è poste, e fa altrettanto con i suoi compagni, rivelando le falle nell'impianto dell'accusa, e rivelando il peso del pregiudizio nell'atteggiamento generale nei confronti di un diciottenne cresciuto in un quartiere misero, con tanto di precedenti penali per furto e violenze. E il pregiudizio ha radici tanto profonde in questi uomini americani di cui non sappiamo il nome ma sappiamo molto, cittadini "rispettabili" con ben avviate attività professionali, ma umanamente confusi e "arrabbiati" (Twelve Angry Men è il titolo originale del film e del dramma da cui è tratto) che per eradicarlo serve un miracolo; un miracolo che riesce al coraggioso numero 8.

E il miracolo riesce anche a Sidney Lumet, che confeziona un film vibrante, teso, avvincente ed emozionante che si svolge tutto in una rovente camera di consiglio tra dodici uomini come mille altri. La sua regia è trascinante e semplicemente geniale nel comporre le inquadrature sui giurati: li avvolge in fluidi piani sequenza, li scruta dagli angoli della stanza, li appaia e li separa, e poi passa ai dettagli, e li rivela. La sceneggiatura, di un'intelligenza straordinaria, fa la sua parte nel creare un convincente background per tutti i giurati (tranne forse che per il personaggio di Fonda, ma non ci serve sapere nulla di lui se non che è l'eroe del dubbio), nel rendere plausibile il modo in cui un uomo solo riesce a indurne undici a cambiare idea e nel cadenzare l'entusiasmante progressione con cui l'elegante e razionale numero 8 affronta prima la comune ostilità e poi apre le menti dei suoi compagni.

C'è chi è subito conquistato al valore del dubbio e lo abbraccia nell'istante in cui lo incontra, ma c'è anche chi fatica immensamente a separarsi dalle proprie certezze; certezze che sono state l'unico punto fermo di un'intera vita. Così è proprio il giurato più ruvido e apparentemente insensibile, quello che ha il volto di Lee J. Cobb, a commuoverci più di ogni altro nell'ultimo monologo del film. La sua interpretazione è forse il momento più alto di una pellicola densa e memorabile dal primo all'ultimo fotogramma.

Movieplayer.it

5.0/5