Circa un anno fa cominciava l'ultima stagione de Il Trono di Spade. Criticatissima, sbeffeggiata e con un finale considerato debole, la creatura di Benioff e Weiss si è conclusa nel peggiore dei modi lasciando i fan arrabbiati e scontenti. C'è chi ha criticato gli errori di messa in scena (errori, va detto, presenti in qualsiasi opera audiovisiva), chi le scelte stilistiche di un intero episodio, chi si è sentito tradito nel vedere i propri personaggi preferiti trasformarsi in sterminatori, chi in generale ha sentito perdersi la magia delle stagioni precedenti. In tutto questo il capo d'imputazione è solo uno: la scrittura. Può essere possibile che due sceneggiatori all'improvviso, proprio nel finale della serie dei record, un prodotto visto da tutto il mondo e dal budget incredibile per il piccolo schermo, abbiano improvvisamente perso tutta la loro capacità che tanto ci aveva coinvolto per sette anni? O forse il tutto si basa sulle nostre aspettative non rispettate e un'incomprensione generale? Forse, a un anno di distanza e con la pancia raffreddata, abbiamo perso di vista il vero senso della serie che trova negli ultimi sei episodi la sua ineluttabile conclusione.
L'inverno è arrivato e ha portato tempesta
Tagliamo subito la testa al toro: è vero, le ultime due stagioni procedono con l'acceleratore se messe a confronto con le sei precedenti. Non crediamo che il motivo risieda nella mancanza del materiale originale, quei fantomatici due libri che Martin ci promette da anni e che tutt'ora non hanno visto la pubblicazione, ma in un discorso più circoscritto alla serie sia pratico-economico che stilistico. Meno episodi per gestire al meglio l'alto (per una serie) ma esiguo (per quello che andava rappresentato) budget hanno portato all'eliminazione di ogni momento morto rompendo quel ritmo compassato a cui ci eravamo abituati. Certo, in qualche occasione forse si sente la necessità di qualche momento aggiuntivo, soprattutto per l'evoluzione di certi personaggi, ma consapevoli di questo cambio di ritmo narrativo siamo anche tenuti ad accettarlo. Se la calma prima della tempesta è stata lunga e l'attesa dell'inverno ci ha permesso di conoscere a fondo i personaggi creando loro una tridimensionalità tale da mostrarne difetti, pregi e ambiguità, rendendoli completamente umani con tutto quello che ne consegue, arrivati alla resa dei conti la necessità di soffermarsi una volta di più sull'indagine della natura dei personaggi già ben costruiti sarebbe risultato ripetitivo. Il gran finale doveva per forza essere una tempesta: forte, inattesa, rapida come un temporale estivo che dura pochi minuti ma è capace di spazzare via tutto. Un lavoro più emozionale che logico, più dirompente che compassato, più dionisiaco che apollineo.
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Cantami, o Diva...
A questo punto avviene il cambiamento più importante e incompreso della serie: la scrittura abbandona definitivamente uno stile applicato al reale per abbracciare il racconto epico-mitologico. Westeros, e la battaglia per il trono, si elevano dal realismo, dal mondo quotidiano inserito nella finzione che era stato usato per trasportarci piano piano nei meccanismi della storia e diventano mito, la storia che diverrà poi "Le Cronache del Ghiaccio e del Fuoco" composta non da esseri umani che compiono azioni, ma da eroi che compiono gesta. È un cambiamento quasi improvviso, che può disorientare gli spettatori soprattutto se carichi di aspettative e con la propria idea di finale perfetto, ma che si sposa benissimo con l'intento più emozionale ricercato. Il racconto epico-mitologico non ha bisogno di soffermarsi sui dettagli o sull'assoluta logicità delle azioni compiute dai personaggi. Ne ricerca la forza narrativa, l'impatto emotivo, la simbologia archetipica delle storie che ci accompagnano, immortali, dall'alba dei tempi. È come se Il trono di spade fosse diventata una serie così di successo da elevarsi e diventare leggenda, fuori e dentro lo schermo. La scrittura diventa racconto orale, il ritmo accelerato diventa musicale, la potenza visiva trasborda dallo schermo, i presunti buchi di sceneggiatura diventano momenti ininfluenti rispetto al senso del racconto epico. L'approccio migliore come spettatori sarebbe quello di lasciarsi travolgere come se la storia ci venisse raccontata a voce da un novello Omero, un poeta cantore che ci trasporta in un'epoca dove draghi ed eroi vinsero o trovarono la morte.
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Fuori da Westeros, dentro al mito
A cosa serve il mito? Serve a narrare qualcosa che, nonostante sia ambientato in tempi e realtà soprannaturali, a posteriori parla del mondo in cui viviamo e Il trono di spade non fa eccezione. Al di là dei prodigi innovativi e tecnici che hanno ancora una volta incoronato la HBO come modello di televisione d'eccellenza, la forza della serie sta anche nella sua contemporaneità e nell'essere stata trasmessa in un decennio dove a livello sociale si sente particolarmente lo scontro generazionale tra padri e figli, tra tradizione e rinnovamento. Il percorso dei protagonisti del Trono di Spade li porta a scontrarsi tra il loro sangue (i motti, le casate, le discendenze, l'eredità) e il loro desiderio; vivono in un mondo lasciato loro dai padri e vogliono cambiarlo in qualcosa di nuovo, forse migliore; in loro c'è un conflitto tra quello che sono e quello che vorrebbero essere. Ecco che tutte le scelte narrative dell'ottava stagione, a primo impatto sorprendenti ma a posteriori inevitabili, acquisiscono tutto un altro sapore e un altro significato.
Vincere la morte per un nuovo mondo
L'esercito dei morti si mette in cammino quando l'ordine del mondo inizia a frantumarsi con l'omicidio del Primo Cavaliere di Re Baratheon. Inizia un lungo intrigo per uccidere il re e portare un cambiamento (che sia un intrigo della moglie Cersei o la volontà della casata Targaryen di riprendersi il trono). I morti in cammino simboleggiano il passato del mondo che ciclicamente fa ritorno per bloccare il cambiamento generazionale in atto. Il criticato episodio 3 dell'ottava stagione sancisce definitivamente la vittoria dei giovani rivoluzionari, i figli che non seguono gli insegnamenti dei padri, che hanno compreso che il mondo lasciato loro contiene regole che non possono più valere, che hanno il desiderio di cambiamento per sentirsi davvero padroni della loro vita e della loro esistenza. Il loro atto di ribellione rende persino obsolete vecchie credenze popolari, antiche profezie scritte dai loro avi non hanno più alcun valore. Sconfiggendo il Re della Notte, e di conseguenza la morte stessa, le nuove generazioni vincono sul passato e sono pronte al cambiamento. Chi rimane sono i loro stessi padri: la regina Cersei, ancora bloccata in un sistema obsoleto, regina di un mondo voluto da chi non c'è più.
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Fuoco e sangue non mentono
Alla fine del quarto episodio, Daenerys sembra una bambina arrabbiata. E forse lo è sempre stata. Il suo cambiamento nell'episodio 5, apparso così repentino e improvviso tanto da scontentare un po' tutti, è in realtà frutto di una bomba ad orologeria. Ha tanti nomi, Daenerys Targaryen Nata dalla tempesta, prima del suo nome eccetera eccetera, ma sono nomi che lei stessa si è data grazie ai successi in una parte del mondo che non era quella degli adulti. E ha perso tutto: l'amore, la fiducia, i figli, gli amici, la discendenza. Quando decide di bruciare Approdo del Re, il discorso generazionale assume connotati molto più pessimisti: non ci può essere un nuovo mondo se il popolo (che abbiamo visto amare e odiare i sovrani in base all'umore e alla giornata) appartiene al mondo che i giovani stanno cambiando. Ma è anche l'esplosione rabbiosa di una giovane che è stata ingannata per l'ennesima volta dai "vecchi" e non sopporta oltre. Una visione più pessimista soprattutto perché Daenerys dimostra che, volente o nolente, appartiene completamente a ciò che descrive al meglio la sua famiglia e la sua discendenza: fuoco e sangue. Così decisa a cambiare, così sicura di sé (la solita hybris che rende ciechi), Daenerys è destinata a fallire nel suo sogno utopico. Doveva essere il passato, dovevano essere i morti a portare l'inverno. Invece la distruzione è stata portata dai vivi e la neve si è trasformata in cenere.
"Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida"
L'episodio finale della serie è dolceamaro. Si conclude riprendendo l'inizio del primo episodio della serie dando un senso circolare: il ciclo del tempo, la rotazione terrestre, la storia che si ripete. Non ci sarà più un trono, ma un nuovo sovrano. Ci saranno nuovi equilibri (Sansa regina del Nord indipendente), ma anche vecchi sopravvissuti (il consiglio ad Approdo del Re). C'è un senso di tranquillità, ma anche di sconforto nel vedere un nuovo consiglio politico iniziare a discutere sui soliti argomenti: l'esercito, i bordelli, le navi. Tornano in mente le parole de "Il gattopardo" di Tomasi di Lampedusa: se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi. A prima vista la cercata rivoluzione dei giovani è stata un mezzo fiasco. Tuttavia l'immagine della mappa di Westeros nella sala del consiglio, un pavimento ormai fratturato e rotto, sembra presagire che il mondo, in qualche modo, sia davvero cambiato. E il nuovo sovrano Bran, apatico personaggio al di sopra delle parti e della fazioni e senza possibilità di eredi, si fa metafora del buon governo, quello che riesce grazie alla memoria storica. Ecco che, come nelle migliori fiabe, come nei miti primordiali arrivati per tradizione orale fino a noi, il finale de Il trono di spade ci racconta qualcosa di noi, della nostra generazione, invitandoci a costruire il nostro mondo desiderato senza ripetere gli errori di eroi persi nel tempo.