Dottor Falcone, noi dobbiamo decidere solo una cosa: chi deve morire prima, lei o io?
Il traditore, participio derivante dal verbo latino tradĕre, a livello etimologico significa "colui che consegna", e non a caso la parola "tradimento" ha la medesima radice di "tradizione", in cui la consegna è intesa nel senso di trasmissione. E la tradizione è ciò a cui, implicitamente, si aggrappa Tommaso Buscetta nel film di Marco Bellocchio: Buscetta è colui che 'tradisce' Cosa Nostra, scegliendo di collaborare con la giustizia, e che a quella 'tradizione' di onore fa appello per rivendicare la legittimità della propria scelta. Perché i veri traditori, per Buscetta, sono altri: coloro che, per tornaconto personale, hanno rinnegato gli antichi valori di Cosa Nostra, corrompendone la natura originaria. E se, al momento di diventare "il traditore", Buscetta si fa scudo di quei presunti valori, d'innanzi a lui lo sguardo scettico di Giovanni Falcone ne denuncia invece il carattere illusorio, come una leggenda priva di fondamento.
Il boss dei due mondi secondo Marco Bellocchio
L'attaccamento viscerale alla tradizione, e quasi per sineddoche alla famiglia, da un lato; il cupio dissolvi, l'anelito a distruggere e a distruggersi, dall'altro. Sono i due poli sui quali Marco Bellocchio, fin dal fragoroso esordio de I pugni in tasca, ha imperniato gran parte della sua opera, ed è la stessa dicotomia attorno a cui è costruita anche questa nuova fatica. Il legame con il passato - familiare e culturale - e il suo peso talvolta logorante accompagneranno Tommaso Buscetta lungo l'intera parabola raccontata nel film di Bellocchio, così come la morte, lo spettro perennemente evocato: nelle parole, nei ricordi di una famiglia decimata dalla Mafia e negli squarci onirici che si aprono più e più volte nella tormentata realtà del "boss dei due mondi".
La componente onirica, del resto, non rappresenta certo una novità per la filmografia di Bellocchio: il cinema del regista emiliano, specialmente da L'ora di religione in poi, oscilla spesso al limine fra il realismo e la dimensione del sogno, arrivando talvolta a fondere i due piani fino a renderli pressoché indistinguibili. Il traditore non si spinge fino a tal punto, eppure l'universo in cui è calato ha spesso una qualità fantasmatica, accentuata dai toni cupissimi della fotografia di Vladan Radovic; specialmente nella prima parte, quella relativa alla latitanza di Tommaso Buscetta in Sud America, al suo arresto e alla sua estradizione in Italia, mentre il boss Totò Riina sta assumendo il controllo di Cosa Nostra con un sanguinario regolamento di conti.
La Storia e i suoi fantasmi
Questo regolamento di conti, messo in scena da Marco Bellocchio con un ritmo serrato che sembra rifarsi al canone dei gangster movie americani (la saga de Il Padrino è il modello di riferimento primario), segna uno dei picchi di tensione all'interno di un film complesso e multiforme, che cambia pelle e direzione di volta in volta. Perché Il traditore, al di là di un protagonista tanto famoso e controverso, appare come il lavoro forse più ambizioso mai realizzato da Bellocchio: sia dal punto di vista narrativo, con centotrenta minuti per ripercorrere circa vent'anni della recente storia italiana e della lotta contro la Mafia, sia nell'adozione di una prospettiva che non si accontenta di restare entro i confini del classico docudrama, ma in più occasioni punta a forzare tali confini.
Dal thriller gangsteristico si passa dunque al lungo blocco centrale del film: un dettagliato reenactment del maxiprocesso di Palermo, svoltosi dal 1986 al 1987, in cui alle bestiali esibizioni degli imputati chiusi nelle gabbie dell'aula-bunker fanno da contraltare la solennità e il pathos del Buscetta di un Pierfrancesco Favino davvero magnifico (ad oggi, si tratta della miglior interpretazione dell'attore romano). Ma la cronistoria del più noto pentito d'Italia non si ferma qui: ci sono gli Stati Uniti, cornice di una nuova esistenza che però non consentirà a Buscetta di trovare riparo dai propri fantasmi. Quei fantasmi sono sempre dietro di lui, implacabili: nelle note familiari de L'italiano di Toto Cutugno e nel ricordo angoscioso del suo primo delitto, puntualmente rimandato. Nel frattempo, dall'altro lato dell'Atlantico, la Prima Repubblica è crollata sotto l'uragano di Tangentopoli e Buscetta si accinge a combattere un'altra crociata giudiziaria, stavolta contro Giulio Andreotti.
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La tragedia del potere
E lui, il divo Giulio, con i tratti marcati dell'attore Pippo Di Marca, è l'altra maschera del potere: un potere silenzioso (Giulio Andreotti è rinchiuso in un assoluto mutismo), dalle sembianze grottesche, piegato ma non sconfitto. Ecco, Il traditore è tutto questo: un grande film sul potere e le sue illusioni, sulle contraddizioni dell'etica e ovviamente sulla memoria: quella personale di Buscetta e quella di un intero paese. Non è la prima volta, del resto, che Bellocchio fa leva sulla nostra memoria collettiva: in Buongiorno, notte era la ferita mai cicatrizzata del sequestro Moro, in Bella addormentata la ferita ancora aperta della vicenda di Eluana Englaro. E anche qui Bellocchio fa riaffiorare alcune pagine legate all'immaginario dell'Italia degli ultimi quattro decenni, consapevole del loro inesorabile portato emotivo: una su tutte la strage di Capaci, punto di non ritorno ed ennesimo capitolo della perdita dell'innocenza di una nazione.
Perché a rendere Il traditore un'opera così straordinaria, fra le più impressionanti ed ardite nel cinema italiano dell'ultimo decennio, è proprio la compenetrazione fra tutti i suddetti piani. Una compenetrazione quasi miracolosa in un film di tale densità, fino a quell'epilogo di nuovo sospeso fra realtà e delirio: quando l'allegria forzata delle feste di compleanno e dei karaoke cede il posto alla malinconia tragica dell'attesa della fine, in un estremo corto circuito fra il ricordo, l'incubo e gli abissi della coscienza.
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