Il sorprendente '68 di Garrel
Quella di Les amants réguliers alla Mostra di Venezia è stata un'irruzione. La mina vagante. Il corpo estraneo che non pare avere nulla a che fare con il resto. Il regista del film, Philippe Garrel, sconosciuto al grande pubblico, è in realtà autore di culto per i cinéphiles, una specie di appartata rockstar che in oltre trent'anni non è mai scesa a compromessi. E si presenta oggi con un film sul '68 realizzato con un budget modestissimo e interpretato dal figlio Louis, già protagonista di The Dreamers - I sognatori di Bertolucci. Stesso contesto e personaggio simile, ma ben altro rigore nella conduzione della storia, nella coerenza poetica, persino in quella che un tempo si sarebbe definita "l'urgenza ideologica". Il Maggio francese di Bernardo è solo nostalgia, sterile rimpianto, utopia borghese filtrata attraverso il cinema. Per Garrel è invece il monolite di Kubrick, una sorta di macigno più storico che generazionale, con il quale fare i conti.
Les amants réguliers racconta di un gruppo di ragazzi che partecipano agli scontri di Parigi, alzano le barricate, fuggono sui tetti, rischiano il collo e l'arresto, finiscono per rifugiarsi nella casa di un amico ricchissimo, che di fatto li mantiene tutti. Vorrebbero trasformare il mondo. Non solo con le Molotov. Con la poesia, la pittura, il rock'n'roll. Il cambiamento, la loro rivoluzione, non è cerebrale, fatta di slogan: è un'idea di vita. L'aspirazione del gruppo è talmente intensa che alla fine si pensa che ce la facciano: stanno vivendo come vogliono loro, veramente liberi. Forse è per questo che sono destinati a fallire, anche tragicamente: perché sono a un passo dal rendere l'illusione una realtà. Cosa li rovina? Il rapporto con il denaro, con la disparità sociale, con l'establishment? Non solo. È proprio la certezza di essere stati a un passo dalla realizzazione di un'ideale di vita a frantumare il gruppo. È l'ambiente circostante a dettare le regole, a non permettere a nessuno di uscire vincitore, di poter dire "avevamo ragione noi".
Scevro da qualsiasi reducismo, Garrel. Non gli interessano i proclami. Non spiega, non pontifica. Mostra. Gli scontri di maggio sono ricostruiti con pochissimo. Un fumogeno, qualche carcassa, e poi i volti e i corpi degli studenti, una pistola che spara in aria, il fumo, il buio totale. Basta questo per restituire l'impatto e la drammaticità di un momento che segnerà milioni di persone, non a caso esplicitamente paragonato alla Rivoluzione francese. Sono scene lunghe, molto dilatate, silenziose nonostante il frastuono dei colpi e delle cariche. Bellissime. Poi, nella seconda parte, il film si fa più intimo, si chiude a riccio nella casa del giovane mecenate, dove i ragazzi ballano una canzone dei Kinks e trasformano l'estate della loro giovinezza in poesia. La città del sole in una stanza. Come L'eau froide di Olivier Assayas, con la stessa leggerezza e forse, il medesimo dolore.