Quando il barone Pierre De Coubertin, fondatore delle Olimpiadi moderne, ideò la frase che ne sarebbe poi diventata il motto, 'L'importante non è vincere, ma partecipare', avrebbe potuto riferirsi all'impresa di un piccolo uomo, Dorando Pietri, che durante i Giochi Olimpici di Londra del 1908 riuscì a battere avversari ben più accreditati nella maratona, perdendo la gara solo perché, allo stremo delle forze, fu sostenuto negli ultimi metri da alcuni giudici. Divenne celebre pur da sconfitto, grazie alle dimostrazioni di stima di personaggi come Sir Arthur Conan Doyle ('La grande impresa dell'italiano non potrà mai essere cancellata dagli archivi dello sport, qualunque possa essere la decisione dei giudici', scrisse sul Daily Mail) e al riconoscimento ottenuto da parte della regina Alessandra che lo premiò ugualmente con una coppa d'argento. Al protagonista di una delle imprese sportive più discusse di sempre, Rai Uno dedica una miniserie in due puntate, Il sogno del maratoneta, diretta da Leone Pompucci e in onda il 18 e 19 marzo in prima serata. A dare corpo e anima all'atleta emiliano è Luigi Lo Cascio, volto tra i più apprezzati dal pubblico italiano, nonché mezzofondista e vero appassionato di atletica. Al suo fianco Laura Chiatti e Dajana Roncione, amante di Pietri la prima e moglie del corridore la seconda, ed un cast composto tra gli altri da Alessandro Haber, Fabio Fulco, Thomas Trabacchi, Pippo Del Bono, e Andy Luotto.
All'incontro con la stampa, che si è tenuto questa mattina nella sede della Rai a viale Mazzini, hanno partecipato anche il capostruttura di Rai Fiction, Francesco Nardella e il produttore della miniserie per Casanova Production, Luca Barbareschi.
Signor Nardella, com'è nata l'idea di una fiction dedicata ad un protagonista dello sport? Francesco Nardella: questo è l'anno olimpico e Rai Fiction vuole celebrare l'avvenimento con dei lavori che raccontino lo sport in maniera atipica, oserei dire quasi antica. In questo caso lo sport rappresenta una vera ossessione per il protagonista. La prima volta che ho sentito parlare di Dorando Pietri avevo circa dieci anni e sfogliavo la Domenica del Corriere di mio nonno, che era un medico condotto. Quelli erano anni in cui per spostarsi da una parte all'altra si camminava parecchio e lo si faceva esclusivamente per campare. Non potevo non amare la favola di un contadino della Bassa che invece sentiva l'urgenza di competere. Quella è stata la molla che ha fatto partire il progetto. Naturalmente poi c'era anche la storia dell'atleta che vince perdendo, di un'eroica sconfitta che è restata impressa nella memoria più di tante altre vittorie.
Siete partiti dal libro di Giuseppe Pederiali, Il sogno del maratoneta...
Sì, un libro che è stato sceneggiato in maniera molto semplice, essenziale, non artefatta. Non abbiamo voluto usare i trucchetti che si usano nelle fiction. Dopo di che è stata fondamentale l'intepretazione autoriale di Leone che insieme alla produzione ha messo in piedi uno straordinario gruppo di attori, soprattutto nei piccoli ruoli.
Luca Barbareschi: e il risultato ha una qualità molto vicina al cinema. Dopo il successo della fiction su Walter Chiari, seguita da un pubblico che in genere non guarda questo tipo di prodotti, possiamo affermare che si può coniugare qualità e successo in termini di ascolti. Per quello che mi riguarda, Dorando Pietri è un grande sogno che si realizza. Ho capito che sarebbe stato possibile farlo quando ho trovato l'attore che avrebbe potuto interpretare Pietri e ringrazio Luigi Lo Cascio, perché è stata la leva per fare il film.
A cosa ti sei ispirato per costruire il personaggio?
Mi sono preparato come sempre, partendo, come si diceva prima, dalla sua ossessione per la corsa. Il vero nemico di chi corre è sé stesso, è quella voce che ti disce di fermarti perché non ce la fai più. La maratona è già tragedia, è già teatro. Sono cresciuto con campioni del calibro di Pietro Mennea, Sara Simeoni e Salvatore Antibo e in parte mi hanno aiutato le loro immagini. Non potrò mai dimenticare la gara dei 10.000 metri che Antibo corse ai mondiali di Oslo. Arrivò secondo ma per tutto il tempo è stato al fianco dell'atleta marocchino. Non potrò mai dimenticare quella maratoneta che alle Olimpiadi di Los Angeles arrivò stremata nello stadio esattamente come accadde a Pietri. Non correva per vincere, doveva solo finire la gara, ma nonostante gli spasmi della fatica tenne lontani il medico e il giudice. Lo stadio si era fermato per lei. Se queste come mi emozionano come spettatore, mi ispirano anche come attore.
Leone anche per te è stato importante confrontarsi con un personaggio così carismatico? Leone Pompucci: certo, in lui ho visto la voglia di affermarsi, il desiderio che ogni agonista ha di trovare il raggio di sole della sua esistenza che lo inchioda alla Terra, come diceva Quasimodo. Dorando cerca la dignità di esistere, ma viene beffato. Tutto quello su cui punta fallisce, arriva anche a calpestare gli altri pur di arrivare, viene distrutto, ma poi rinasce. Girando il film mi è venuto spesso in mente Marco Pantani che dopo una vita di trionfi è morto in solitudine in un albergo. Mi sono chiesto cosa succeda nelle vite di certi atleti dopo una grande vittoria. Alcuni di loro sono dei disgraziati con fede assoluta.
Laura e Dajana ci raccontate la vostra esperienza sul set con Leone Pompucci?
Laura Chiatti: Leone è stato uno dei motivi che mi hanno spinto ad accettare questo progetto bellissimo. Lui possiede la rara capacità di farti comprendere appieno come debba essere il personaggio che interpreti, pur assecondando il tuo istinto. Oltre ad essere una persona allegra e carismatica.
Dajana Roncione: Leone è uno che non ti abbandona mai e che non si accontenta. Ci ha fatto lavorare minuziosamente, senza lasciare nulla al caso. Sono stata davvero fortunata ad intepretare un personaggio come Teresa, una figura quasi Dostoevskijana, una sorta di specchio per Dorando.
Il vostro è un prodotto che si distacca dalla media delle fiction, avete timore che un lavoro così raffinato possa non incontrare i favori del pubblico?
Luigi Lo Cascio: Leone ha messo in scena una favola, un mito, e se ad una prima lettura il mito può sembrare complesso alla fine tocca gli uomini nel profondo. La mia formazione attoriale è stata segnata dagli sceneggiati televisivi italiani e dai grandi attori che ci lavoravano, Adolfo Celi, Tino Buazzelli, Paolo Stoppa, che a un'Italia analfabeta proponevano L'idiota di Dostoevskij. Volevano dare al pubblico cose belle.
Francesco Nardella: nessuno deve avere paura della qualità, anche se ci rendiamo conto che il sistema di variabili che determinano il successo di una fiction è enorme, ma è sempre meglio provarci.
Luca Barbareschi: preferirei che si uscisse dalla logica della gara, perché ogni prodotto ha una sua identità. Spero invece che la fiction continui ad avere questa centralità nel piano industriale della Rai. Noi abbiamo costruito una bellissima tradizione e dobbiamo proteggerla, puntando su prodotti che non si limitino alla durata di 50 minuti. Vorrebbe dire spezzare la linea narrativa, rompere il respiro di una storia.