Il ritorno per un nuovo inizio?
Mancava sul grande schermo dal lontano 1987, quando il deludente Superman IV sembrava chiudere mestamente le fortune cinematografiche dell'Uomo d'Acciaio (che curiosamente proprio nel finale di film dava appuntamento tra venti anni al nemico di sempre Lex Luthor). Neanche lo shock causato nel 1993 dall'uscita del leggendario numero La morte di Superman contribuì fruttuosamente ad una sua riscoperta in celluloide. La crisi che il "più grande eroe della Terra" ha attraversato in tutto questo lasso di tempo può essere considerata a posteriori come sintomo dello spaesamento di un'intera nazione al cospetto dei mutamenti dell'era moderna e di tutte le problematiche relative. Si è preferito quindi dare maggior credito all'epopea gothic-dark dei due Batman burtoniani e, ai giorni nostri, alle intelligentissime riletture degli Spider-man di Sam Raimi, più che a quelle degli X-men dello stesso Bryan Singer. Il mondo, insomma, non aveva più bisogno di Superman. Ma evidentemente sotto la cenere dell'oblio covava il sacro fuoco del ritorno sulle scene del Man of Steel, dopo anni di progetti elaborati, modificati e poi accantonati (uno di essi prevedeva addirittura Tim Burton come regista di un Superman lives).
Il punto di partenza di Singer è il Superman di Richard Donner, primo ma non primo della serie (ce n'è un altro caduto nel dimenticatoio datato 1948, insieme ad un altro film per la televisione e a svariati cartoons), di cui questo Superman returns rappresenta un affettuoso e dichiarato omaggio. Ma le tante citazioni tratte da quel film (i titoli di testa, il viaggio nello spazio, la corsa con il treno, Clark Kent che si strappa la camicia dirigendosi verso la macchina da presa, la tanto chiacchierata apparizione post mortem di Marlon Brando) servono anche a contestualizzare la storia, cercando di colmare il vuoto lasciato dopo Superman IV. Operazione rischiosa, perché il mondo odierno, oltre a non aver più bisogno di Superman (almeno così si è detto), forse non ha più bisogno di certe enfasi e di certi accenti posti sull'onnipotenza del supereroe di turno. In Superman returns le lezioni del recente Batman Begins (considerato dagli stessi studios come il vero modello per il film di Singer) e le "conquiste" di Burton e Raimi lasciano sostanzialmente il tempo che trovano.
Superman returns funziona dunque come una versione aggiornata del classico di Donner, e il cambiamento nella vita privata dell'amata Lois Lane (una Kate Bosworth credibile), accasata (con James Mardsen, il Ciclope di X-men) e per giunta con prole (sorvoliamo pure sulle sue presunte origini super-umane), è la vera novità per l'Uomo d'Acciaio tornato sulla Terra dopo un peregrinare di cinque anni alla ricerca della nativa Krypton. La storia, nonostante questa interessante intuizione "intimista", conserva difatti le sue tonalità messianiche (e per il ruolo del protagonista si era addirittura pensato al James Caviezel de La passione di Cristo), con un impianto complessivo che resta sostanzialmente invariato rispetto al primo episodio: il sofferto "rapporto" tra Superman e il suo alter ego Clark Kent, il cattivone Lex Luthor (qui con le fattezze di Kevin Spacey, più minaccioso e meno grottesco rispetto a Gene Hackman) sempre in preda a istinti distruttivi che gli consentano di speculare nel campo dell'attività immobiliare e quella vecchia e sana concezione manichea che distingue il bene dal male, tipica dei comics delle origini. Oltre ad invenzioni tecniche solo immaginabili ai tempi di Donner (con il supporto della nuovissima Panavision Genesis HD Camera), e il solito modo sbarazzino di muovere la macchina da presa da parte del Singer votato ai comics (con un montaggio efficacissimo curato da Elliot Graham e John Ottman, quest'ultimo compositore anche dello spettacolare score alla John Williams), l'approccio tra sana azione, humour e suspense dei quattro Superman precedenti (in particolar modo del primo episodio) viene rispettato. Si sfiora appena così il costrutto esistenzialista, ad esempio, di un Batman Begins o di quello che resta tuttora il più grande monumento cinematografico mai innalzato in onore alla filosofia supereroistica, Unbreakable - Il predestinato. Ma la sequenza dell'aereo che precipita (molto più delle tante sequenze da film catastrofico della seconda parte) merita davvero gli applausi della folla che assiepa le tribune del campo da baseball. Il pestaggio di Superman da parte di Lex Luthor, un momento situato tra Arancia Meccanica (la sequenza-balletto, per la precisione) e La passione di Cristo, crea qualche brivido di commiserazione per il supereroe caduto indifeso in balia del male. Inoltre il protagonista principale (il volutamente sconosciuto Brandon Routh) non ha certo il fascino e il carisma di Christopher Reeve, soprattutto quando il compianto attore giocava magnificamente a fare il Cary Grant di Susanna impersonando l'allampanato e occhialuto Clark Kent. Il physique du role non manca di certo a Routh ma, si sa, qualsiasi confronto è improponibile per tutto quello che Reeve, soprattutto sul piano umano, ci ha donato. Ci sentiamo comunque di dire, e senza mezzi termini, che la prestazione del nuovo Superman, insieme al suo aplomb, sono alquanto anonimi e forzati. E il film nel complesso ne risente per l'asetticità alla quale Routh assoggetta l'icona Superman, affrontando con eccessivo distacco tutti quegli attimi che basta un nonnulla per trasformarli da struggenti, epici e comici a mielosi, banali e ridicoli.
Per il resto il film, seppur lontano, lo ribadiamo, dal pathos e dalle inquietudini sottotraccia dei moderni comic-movies, è sicuramente godibile e potrà soddisfare quel pubblico combattuto tra divertimento spensierato e nostalgia per un supereroe della prima ora. Ma forse il mondo, oggi come oggi, ha bisogno di qualcosa in più... Ci rivedremo allora, tra venti anni o quanto prima (visto il già annunciato sequel), e ne riparleremo.