Recensione La mia vita a Garden State (2004)

La commistione tra dramma esistenziale, commedia sentimentale e colorato affresco di provincia convince, e, se proprio si vuole imputare qualcosa al bravo Zach Braff, lo si può accusare di aver peccato di eccesso di zelo, esagerando sia con il fiele che con lo zucchero.

Il risveglio del cuore

Il ritorno a casa, il confronto con il proprio passato, il ritorno alla vita, la decisione di crescere; questo è il topos narrativo - o frusto cliché, a seconda del punto di vista - che Zach Braff adotta per la sua pellicola d'esordio La mia vita a Garden State. Ma il trentenne talento americano, autore anche della sceneggiatura, lo riveste generosamente di uno humour originale e multiforme, di una fresca creatività, di un tocco di onesto romanticismo e, per finire, di un messaggio universalmente comprensibile e condivisibile trasmesso con sincero trasporto.

Il giovane "esule", richiamato a casa per la morte della madre è Andrew Largeman (interpretato dallo stesso, versatile Braff), ventiseienne che ha lasciato la famiglia appena raggiunta la maggiore età, per lavorare come attore televisivo/cameriere a Los Angeles, e per nove anni non ha fatto ritorno a Garden State. Considerato mentalmente instabile da quando, bambino, causò un incidente incapacitante alla madre, Andrew non ha mai smesso la terapia antidepressiva-calmante prescrittagli dall'ingombrante padre, eminente psichiatra, ed è stato così in grado di tenere a bada traumi, ricordi ed emozioni; ed è così che non riesce nemmeno a piangere al funerale della madre. Ma quello stesso giorno avviene l'incontro con Sam (Natalie Portman), diversa da lui quento un essere umano può essere diverso da un altro; tutta fremiti di vita, coatraddizioni, speranze e amore per gli altri.
La scossa che gli dà Sam si combina allo shock della riscoperta delle amicizie e delle conoscenze di nove anni prima finendo per scuotere Andrew, e per indurlo a tentare di scoprirsi, cessando di prendere i medicinali e decidendosi gradualmente ad affrontare il senso di colpa per l'incidente della madre e una temuta conversazione chiarificante con il padre.

La commistione tra dramma esistenziale, commedia sentimentale e colorato affresco di provincia convince, e, se proprio si vuole imputare qualcosa al bravo Zach Braff, lo si può accusare di aver peccato di eccesso di zelo, esagerando sia con il fiele che con lo zucchero - oltre che di aver sprecato il grande Ian Holm per un ruolo, quello del dottor Largeman, che resta di sfondo. Ottime invece le altre performance attoriali; specialmente deliziosa è la Portman, che rappresenta un'attitudine alla vita che l'autore considera positiva, ma riesce a donare al personaggio numerose, sorprendenti nuances. E bravissimo è anche Peter Sarsgaard nei panni del migliore amico del tempo che fu: in entrambi, nel bene e nel male, s'incarna la vita, terrificante e gioiosa, inquietante e affascinante, che riconquista Andrew Largeman.

Movieplayer.it

4.0/5