Il rancore che non fa più paura
Sequel del remake del remake. Un bel corto circuito per Takashi Shimizu, che continua come in un loop infinito a riproporre ad nauseam il soggetto che gli ha dato fama e soldi, identificando finora, grossomodo, la sua carriera di regista con la saga dei Ju-On (o The Grudge che dir si voglia), giunta con questo The Grudge 2 alla sua sesta incarnazione (ma ne è già in cantiere una settima, sempre ad opera dell'infaticabile nipponico). Qui siamo di fronte alla continuazione della vicenda narrata nella prima versione statunitense, che, come Shimizu ha tenuto a sottolineare, nulla ha a che fare con il sequel giapponese del primo Ju-On: Rancore: si tratta quindi, come si diceva, di un sequel del remake del remake, e non di un remake del sequel del remake, precisazione fondamentale che evidentemente, secondo il regista, dovrebbe mettere l'operazione in tutt'altra luce (Shimizu ha però omesso di specificare se e come questa versione sia legata al primo sequel televisivo diretto in Giappone, e se e come quest'ultimo si ricolleghi al successivo "numero due" cinematografico sempre nipponico: ma pensiamo che per procurarsi un'emicrania quello che abbiamo sia già sufficiente).
La vicenda, dunque, prende direttamente le mosse da quella narrata nel primo capitolo americano, con la casa teatro della maledizione che è stata appena data alle fiamme, e la giovane assistente sociale interpretata da Sarah Michelle Gellar ricoverata in ospedale. Sua sorella Aubrey viene convinta dalla madre malata a recarsi a Tokyo per far luce sul mistero che vede la sorella accusata di aver bruciato la casa: lì, trova un giornalista interessato alla storia della maledizione, insieme al quale si mette a indagare sul passato della dimora e dei suoi abitanti. Contemporaneamente la giovane Allison, neo-studentessa di una scuola internazionale di Tokyo, viene convinta dalle sue amiche a entrare in quella magione annerita dalle fiamme che ormai tutti considerano infestata: la ragazza viene così a contatto con qualcosa che inizierà prevedibilmente a tormentarla. In altre latitudini, il piccolo Jake subisce malvolentieri la decisione del padre Bill, rimasto vedovo, di fidanzarsi con la bella Trish: il ragazzino cerca così di trovare conforto nell'allegria e nella vitalità della sorella maggiore, ma nota che gli altri abitanti del condominio hanno iniziato a comportarsi in modo strano: in particolare uno di loro, perennemente incappucciato, sembra nascondere qualcosa di poco piacevole. Le tre tracce narrative confluiranno presto in un'unica storia, che ha ancora una volta come centro la vecchia dimora di Tokyo.
E' bene chiarire subito una cosa: tutti i The Grudge, a qualsiasi latitudine appartenessero, non sono stati molto più di macchine da brividi più o meno efficaci, e questo nuovo episodio non solo non fa eccezione, ma riesce a tirar fuori il peggio dall'intero, interminabile filone. Spaventi prevedibili e preconfezionati, topoi del genere ormai stantii e incapaci di suscitare il minimo interesse, un'iconografia e un'estetica della paura riproposte in modo stanco e prendendosi maledettamente sul serio, come a far finta che tutto ciò che l'horror asiatico ha mostrato negli ultimi otto anni non sia mai esistito. C'è cura estetica in questo film? Sì, se con questa espressione si intende una fredda, asettica cattura di geometrie scenografiche superficialmente da incubo, e di una fotografia che ormai fa paura solo in quanto incapace di colpire realmente l'occhio. C'è genuina voglia di spaventare? Sì, se per spaventare si intende giocare con lo spettatore a comando, imporgli coscientemente di alzare tutte le difese di cui dispone, e poi colpirlo quando ha già intorno una corazza, e del colpo può sentire solo un rassicurante, inoffensivo rimbombo.
Poco importa, quindi, che Shimizu abbia cercato, con poca convinzione, di dare un background alla maledizione alla base della storia e al personaggio della "spaventosa" Kayako, ben sapendo che quest'ultima non potrà mai avere lo spessore drammatico della Sadako di Hideo Nakata: troppo diverse le premesse di base, troppo diversi gli obiettivi originari delle due opere che diedero il via ai rispettivi filoni. La verità, pura e semplice, è che per trovare qualche motivo di interesse in questo film bisognerebbe accostarvisi completamente digiuni di horror orientale da Ringu in poi; e questo significherebbe, più o meno, aver vissuto gli ultimi (minimo) cinque anni in una campana di vetro, tale e tanta è stata la sovraesposizione di questi film presso il pubblico occidentale. Chiudiamo con un interrogativo/auspicio: va benissimo continuare a distribuire questa roba, visto che evidentemente ha ancora il suo mercato, ma pensare di rivelare al pubblico italiano anche l'esistenza di Retribution di Kiyoshi Kurosawa sarebbe tanto fuori luogo? La risposta potrebbe essere scontata, ma si sa che chi scrive è da sempre tenacemente, ingenuamente attaccato a quelli che sono i suoi sogni/incubi cinematografici.
Movieplayer.it
2.0/5