Recensione The Eye (2002)

Questo film si inserisce nel quadro di una generale "rinascita" dell'horror hongkonghese degli ultimi anni, ispirandosi anche alle più recenti ghost story cinematografiche occidentali.

Il primo senso

Questo film si inserisce nel quadro di una generale "rinascita" dell'horror hongkonghese degli ultimi anni, insieme a titoli quali Nightmare on precint 7 e Inner Senses, rinascita trainata a sua volta dalla grande vitalità delle cinematografie di genere giapponese e coreana (due titoli per tutti, Ringu e Memento Mori) e dal rinnovato interesse per le ghost-story in occidente. E' proprio ai più recenti modelli occidentali che il film dei fratelli Danny e Oxide Pang sembra in gran parte ispirarsi: la trama, va detto subito, non è nulla di particolarmente originale e sono chiari i suoi debiti verso i recenti successi di Il sesto senso e The Others. Tuttavia il film, pur non rappresentando niente di innovativo sul piano dei temi trattati, funziona: vediamo perché.

Quello che da subito colpisce positivamente di questa pellicola è l'ottima "confezione": il film si presenta subito come visivamente molto accattivante, e questo grazie soprattutto a un'ottima fotografia (con toni lividi alternati a squarci improvvisi di luce), a una regia di buon livello, che alterna momenti di puro spavento a rapidi frammenti onirici, in cui la non comprensione dell'immagine rende il tutto più attraente; a completare il tutto, c'è un ottimo uso del montaggio, sapiente, ben studiato, che giova molto alla resa complessiva di molte sequenze. Quello che emerge subito è una perfetta concezione della sequenza di spavento presa in sé: tutto è attentamente studiato per ottenere l'effetto voluto, dalle luci alle scenografie, fino al suono (altro elemento fondamentale in questo film, e il cui particolare uso lo differenzia da tante pellicole dello stesso genere). Il film, da questo punto di vista, funziona egregiamente, e non c'è molto da dire: ci sono almeno tre sequenze il cui effetto sullo spettatore si avvicina al terrore puro. Sembra che, in generale, i registi orientali abbiano mantenuto quella semplice capacità di fare paura che molti occidentali paiono aver perso: i motivi possono essere svariati, dalla contingenza storica di certe società, che favorisce l'emergere di particolari temi, alla contemporanea crisi degli stessi in occidente, ma un dato è innegabile: sia nei suoi esempi più "d'autore" (vedi i film del giapponese Kiyoshi Kurosawa) che in quelli più prettamente commerciali (come il già citato Inner Senses, o anche il film in oggetto), l'horror orientale, indiscutibilmente, fa paura. In questo caso i temi, come detto, non sono affatto originali, ma senza dubbio coinvolgono: i fantasmi fanno paura, ma sono anche anime solitarie, che cercano disperatamente un contatto con i vivi, o meglio con quei vivi che potrebbero farli uscire dallo stato inquieto in cui si trovano; entità spaventose ma bisognose di aiuto, insomma.
Rispetto agli esempi occidentali citati, tuttavia, gli sviluppi di questa situazione differiscono un po', così come le conclusioni: in questo caso, infatti, la protagonista non riesce ad aiutare queste anime tormentate, specie quella della persona che le donò gli occhi; ai danni fatti dagli uomini durante la vita terrena non c'è purtroppo rimedio: l'unica soluzione è, per la protagonista, tornare a non vedere. Una soluzione che è insieme condanna e liberazione: Mun, alla fine, sembra infatti felice di aver avuto la possibilità, anche se per poco tempo, di godere del senso della vista, ma anche conscia che sarebbe stato impossibile, per lei, continuare a goderne senza evitare l'orrore che ne è il contraltare: quell'orrore è stato creato dagli uomini, ed è destinato a sopravvivere dentro quelle cornee, per sempre. Una conclusione abbastanza pessimista, quindi, che nega l'happy ending che un po' ci si attendeva e che ha l'inevitabile sapore dell'ineluttabilità. Tutto questo fa parte di una concezione tipicamente orientale delle storie di fantasmi, basata su una visione dell'aldilà decisamente più cupa di quella che abbiamo noi (che qui tuttavia non raggiunge le vette di pessimismo e di tristezza di un film come Kairo del già citato Kiyoshi Kurosawa).

In ogni caso, è bene dirlo, il film non è esente da difetti: la caratterizzazione dei personaggi lascia piuttosto a desiderare, alla stessa protagonista non si riesce ad affezionarsi più di tanto, c'è una storia d'amore tra la ragazza e il suo terapista che manca assolutamente di approfondimento, e alcune sottotrame non vengono sviluppate (come quella del ragazzino suicida che la protagonista vede nel suo stesso palazzo). Inoltre c'è un uso, in alcune sequenze, di effetti speciali in computer grafica che, a parere di chi scrive, stonano un po' con il look complessivo del film e finiscono col togliere parte del fascino ad alcune sequenze (vedi il volto dello spettro nella scena dell'ascensore, o il gruppo di spiriti che avanza nel comunque ottimo finale).

Il giudizio complessivo su questo film, in ogni caso, non può che essere positivo, principalmente per come riesce a coinvolgere e a spaventare lo spettatore (merce, paradossalmente, rara negli horror occidentali degli ultimi tempi), e in secondo luogo per l'indiscussa perizia tecnica e stilistica dimostrata dai fratelli Pang, giovani registi di cui, siamo disposti a scommetterci, sentiremo ancora parlare in futuro. Intrattenimento di buon livello, quindi, che ha buone possibilità di trovare un suo pubblico anche in occidente: speriamo che l'esempio della Eagle Pictures, che distribuisce il film dalle nostre parti, sia presto seguito, visto anche il generale, buon momento artistico che questo tipo di cinema sta attraversando nei paesi orientali.

Movieplayer.it

3.0/5