Il potere di una risata
Alla corte Estense di Ferrara, nel cuore del Rinascimento cinquecentesco, la morte di Ercole I ha portato al comando il figlio Alfonso (Ruben Rigillo) con la consorte Lucrezia Borgia (Marianna De Micheli). Sarà suo arduo compito sanare i contrasti e le tensioni crescenti fra gli altri tre fratelli: Ferrante (Carlo Caprioli), il Cardinale Ippolito (Vincenzo Bocciarelli) e Giulio (Giorgio Lupano), figlio illegittimo e quindi costretto a rinunciare alla carica ecclesiastica che gli sarebbe spettata di diritto. Ma è una vicenda passionale a far deflagrare la situazione, innescando la struttura narrativa del film: le attenzioni riservate a Giulio dall'avvenente Angiola, cugina di Lucrezia Borgia, suscitano la gelosia di Ippolito che, invaghito a sua volta della giovane, si vendica brutalmente sfregiando il fratello agli occhi, vanto estetico dell'uomo.
Testimone dell'agguato è il buffone di corte Taddeo Brugnola, detto Moschino (il bravo Manlio Dovì, noto per le sue parodie nel Bagaglino), al servizio di Giulio, ma amato ed apprezzato dall'intera corte - soprattutto dall'amico Ludovico Ariosto (Fausto Russo Alesi) - per le sue doti affabulatorie e per il suo buon cuore. Il giullare non ama gli intrighi e gli spargimenti di sangue, ma è suo malgrado costretto a partecipare ai piani del padrone. Giulio, infatti, solo apparentemente accetta una tregua di facciata con Ippolito, ma in realtà trama alle sue spalle con Giancantore, musico di corte, con Ferrante, con il signore decaduto Boschetti (Mariano Rigillo) e con il genero De Roberti (Fabio Sartor) per assassinarlo; anche il duca Alfonso dovrà cadere sotto i colpi dei complottatori, perché colpevole di sudditanza psicologica nei confronti del fratello minore.
Inviato a San Cesaro per procurarsi una pozione mortale, Moschino ha modo di toccare con mano la povertà del contado circostante e le condizioni di estrema miseria e ignoranza a cui è soggetta la popolazione più umile, lontana dallo sfarzo del Palazzo Ducale. Grazie alla sua proverbiale astuzia, Moschino salva dall'impiccagione Menato e aiuta sua moglie Martina a lasciare incolume il villaggio, conducendola a Ferrara. Il delicato rapporto di mutua comprensione e di rispetto reciproco che s'instaurerà tra i due farà da contrappunto al drammatico evolversi dell'intrigo politico, nel quale sono in molti a rischiare la propria vita.
È proprio attraverso lo speciale punto di vista di un'anima pura e geniale come Moschino che scopriamo, con maggior lucidità, la verità su un'epoca di splendori e bassezze, dove l'arte di Tiziano e di Ariosto è messa impietosamente a confronto con la fame divorante dei briganti della foresta, dei popolani e anche dei cittadini di Ferrara.
Un'epoca ammantata di invidie, ipocrisie, intrighi e cospirazioni. Un'epoca di brutalità e di violenza, come rimarca spesso il buffone di corte, che predilige invece l'arte della parola e della rima, fondendo umorismo e poesia, malinconia e gaiezza.
Il cineasta ferrarese Florestano Vancini, importante regista di opere come La lunga notte del '43 (vincitore del Premio Opera Prima al Festival del Cinema di Venezia), La banda Casaroli e Il delitto Matteotti, torna al grande schermo dopo anni di serie televisive (La Piovra 2, Piazza di Spagna) con un progetto che accarezzava da circa vent'anni.
E ridendo l'uccise è un film piuttosto coraggioso nel panorama cinematografico attuale: primo perché è interpretato da attori giovani e semi-sconosciuti, con un background essenzialmente teatrale e televisivo; secondo perché è un film storico e in costume, privo di battaglie, caratterizzato da un meticoloso lavoro di sceneggiatura. Florestano Vancini, autore anche dello script, ha tentato infatti di mediare fra l'esigenza di una maggiore comprensibilità dei dialoghi e il rispetto per le forme dialettali ferraresi.