Steven Spielberg voleva fare un film di spie. Ma non uno di quelli che vanno di moda ora, un'ennesima variazione sul tema 007: lui voleva un film di spie alla vecchia maniera, ambientato durante la Guerra Fredda, con tutti gli ingredienti del classico thriller spionistico hollywoodiano, il muro di Berlino, la CIA, il KGB... c'è anche un lunghissimo pedinamento nella scena iniziale che ricorda addirittura Alfred Hitchcock.
Questo era quello che Spielberg voleva fare, e questo ha fatto. E non si tratta solo di puntualizzare l'ovvio, poiché oggi la consapevolezza di cosa si vuole veramente fare, oltre alla capacità di farlo, sono rimaste prerogative dei grandi. E Steven Spielberg lo è innegabilmente. E nondimeno appare piuttosto evidente il motivo che lo ha spinto a raccontare la storia vera dell'avvocato riservista newyorchese James B. Donovan, che nel 1957 in piena guerra fredda fu incaricato dalla CIA di gestire il delicatissimo negoziato che culminò con lo scambio di spie avvenuto sul Ponte di Glienicke tra Berlino Est e Berlino Ovest.
Uomini "tutti d'un pezzo"
La figura di James Donovan, che intanto il film ha il merito di far conoscere al grande pubblico (scopriamo che successivamente prese parte anche alle trattative per la liberazione dei prigionieri dell'invasione della Baia dei Porci avvenute durante la crisi missilistica tra USA e Cuba) incarna evidentemente alla perfezione l'ennesimo normal hero, l'ultimo eroe comune della lunga galleria di personaggi della filmografia del regista di Cincinnati, uomini "tutti d'un pezzo" che compiono azioni straordinarie spinti semplicemente dal loro senso del dovere e d'integrità, in nome di un'etica della giustizia che va oltre la mera circostanza e la necessità contingente. Dalla citazione del Talmud "Chiunque salva una vita salva il mondo intero" di Schindler's List, fino al paradosso morale di Salvate il soldato Ryan ovvero "É giusto mettere in pericolo la vita di otto uomini per salvarne uno solo?", torna quindi uno dei temi più cari alla filmografia spielberghiana: l'importanza di ogni singolo uomo, di ogni singola vita al di sopra di tutto, un'etica e una morale assolute di cui James Donovan, e quelli prima di lui come Oskar Schindler, il capitano John H. Miller e lo stesso presidente Abrahahm Lincoln, costituiscono ognuno una diversa personificazione.
Un regista sempre attuale
Quello che stupisce soprattutto è la capacità di Spielberg di essere ancora e sempre così puntuale sul pezzo: un film di spie ambientato negli anni '60 in piena guerra fredda che si rivela attuale in modo sorprendente. E non solo per i corsi e i ricorsi storici di un epoca come la nostra vissuta oggi più che mai all'insegna del sospetto e della paura di un conflitto imminente; ma anche e soprattutto per il modo lucido e perfettamente calibrato con cui il regista riesce a restituire l'urgenza proprio in tempi come questi di legittimare la propria esistenza e le proprie scelte in base alla consapevolezza solo del proprio essere e non ai consensi della platea o della pubblica opinione. E poco importa se alla fine Spielberg non resiste comunque alla tentazione di mettere il suo marchio di fabbrica concedendo al suo protagonista il conforto di un happy ending tradizionale con il calore familiare perduto e ritrovato dopo la riabilitazione mediatica tra le lacrime che accolgono il ritorno a casa del daddy as a real hero: l'idea è che dell'approvazione della moglie o dello sguardo condiscendente della signora dietro al giornale, la stessa che prima lo squadrava con disprezzo, scetticismo e diffidenza, uno "tutto d'un pezzo" come James Donovan ne possa fare tranquillamente a meno, e la sua integrità e la sua morale sono talmente giuste che una volta tanto anche la tradizionale ridondanza retorica del più americano dei registi appare giustificata.
Un classico film di spie
La sensazione è che Spielberg, dopo essere stato pioniere della Nuova Hollywood e di un cinema sempre all'insegna dell'innovazione e della rivoluzione estetica della messa in scena, sia paradossalmente rimasto indietro legato a quella che ora é diventata un'idea antica di cinema soprattutto per quello che riguarda lo stile: mentre appare invece ancora più cresciuto, riflessivo, equilibrato e profondo nell'analisi per quello che riguarda i contenuti. In particolare nei titoli più recenti del filone storico (che si contrappone all'altro prediletto dal regista che definiremmo quello fantascientifico) in cui ovviamente va inscritto questo Il ponte delle spie: da Munich fino a Lincoln, è forse lo Spielberg più consapevole e maturo di sempre. Anche qui dunque il regista da il meglio di sé nella costruzione delle psicologie dei personaggi e della narrazione, che scorre fluida e rigorosa, merito anche della scrittura dei fratelli Coen, la cui mano evidentemente stempera gli eccessi di retorica: il film é molto parlato senza mai risultare però eccessivamente verboso, dialoghi perfetti impreziositi da due performance (ottimo Tom Hanks ma attenzione soprattutto a Mark Rylance) di assoluto livello, regia neanche a dirlo solida supportata dalla splendida fotografia di Janusz Kaminski. Soprattutto la sensazione di un controllo totale delle redini della storia fino nei minimi dettagli: la cura del particolare, la distanza tra gli attori, la loro disposizione nella stanza rispetto all'illuminazione, il ritmo cadenzato, tutto contribuisce a dare l'idea di un classicismo perduto, volutamente cercato e ritrovato. Un film di spie si direbbe d'altri tempi, dall'impianto talmente tradizionale che sembra girato nell'epoca in cui è ambientato e che proprio nella sua classicità trova il suo maggior fascino e la sua innegabile bellezza.
Movieplayer.it
4.0/5