Il noir che non c'è più
Non si dovrebbe parlare di questo terzo film di Paolo Sorrentino. Bisognerebbe arrendersi al poderoso flusso di immagini del film. Scoordinate, caotiche, spaventose. Ribelli a qualsiasi sintesi narrativa. Libere. Perché non gira un horror, Sorrentino? Non ce ne sarebbe per nessuno. Se poi lo sottolineasse con una colonna sonora come quella de L'amico di famiglia, potrebbe anche uccidere gli spettatori dallo spavento. Qui invece racconta - sarebbe da dire dissemina di tracce - la storia di un uomo gretto, laido e ricurvo: una figura dickenseniana. Un usuraio taccagno, accumulatore instancabile delle sue inutili fortune. Fino a quando la quiete verrà sconvolta dall'amore, un sentimento che gli è sempre stato precluso, come l'amicizia d'altronde. L'usuraio infernale (un incredibile Giacomo Rizzo) è solo; non ha nessuno, nemmeno il suo compare cowboy con il volto di Fabrizio Bentivoglio.
Paolo Sorrentino vede un suo mondo e produce un suo cinema. Cosa che sarebbe in se stessa apprezzabile quanto insufficiente a garantire il peso specifico di un'opera. Se non fosse che il mondo visto da Sorrentino è il risultato di visioni di una potenza inaudita e L'amico di famiglia è uno di quei film che si affacciano su questa arte raramente, magari con casualità e di solito senza progettualità, ma ne ridefiniscono alcuni confini linguistici e quindi interpretativi.
Non si dovrebbe parlare di questo film, va ribadito, ma se un tentativo è giusto farlo bisognerebbe raccontare due sequenze. La prima è l'incipit tematico: una donna anziana è sotterrata sotto la sabbia con solo la testa scoperta, una stanza azzurra con uno strano amuleto appeso sul muro, all'uscita di una stazione una ragazza rischia di essere investita da un autobus, mentre su un campo di pallavolo delle ragazze si allenano. I loro movimenti seguiti a rallentatore. La seconda racconta di un tradimento e di una truffa con cinque tagli quasi subliminali di un montaggio da extraterrestri a firma di Giogio Franchini. In queste due sequenze l'aderenza nominalistica de L'amico di famiglia al noir e ai suoi fondamenti narrativi attraverso una libertà formale sconvolgente.
L'amico di famiglia travalica quindi la nozione di bello o brutto. E' sperimentazione e linfa vitale. Si situa contemporaneamente fuori e dentro dalla nozione di descrittività del vissuto lasciando libere le porte all'analisi del suo contenuto. Sta a chi vede decidere cosa vedere. Ma è un potere fortunatamente effimero, perché sta a chi le produce le immagini decidere come fare vedere. Concetto elementare quanto sottovalutato: un sublime autoritarismo di cui troppo spesso ci si priva, dimenticando il dolce brivido dell'abbandono di alcune regole e dell'imposizione di altre.
A Cannes non hanno gradito moltissimo. Probabilmente il pubblico gradirà ancora di meno, ma tra qualche anno si studierà questo film nelle aule universitarie.