Il monologo logorroico di Silvio Muccino
Gabriele Muccino è uno dei registi più discussi in Italia degli ultimi dieci anni. In possesso di una buona tecnica, ha (ri)lanciato nel belpaese il filone dei film giovanilistici, che guardano con un occhio compiacente e ruffianotto all'Italia di oggi, che si snoda tra veline, sessanttottismo all'acqua di rose, piccoli e grandi tradimenti. Più in generale ha descritto una grande voglia di vivere, imbrigliata negli schemi di una società chiusa e ottusa, chiamandosi l'apprezzamento del pubblico attraverso una messa in scena solida ed artefatta.
Se c'è una cosa che viene riconosciuta al regista ormai sbarcato ad Hollywood, è che la sua opera prima, Come te nessuno mai, era un film fresco e innovativo, un'opera semplice e poco artefatta consona alle corde di un allora esordiente.
La parabola di Gabriele è stata seguita dal fratello Silvio Muccino , attore protagonista proprio di Come te nessuno mai, il quale, dopo una decina d'anni trascorsi a recitare ha deciso di passare anche lui dietro la macchina da presa. La sua opera prima pecca proprio laddove il primo film di Gabriele spiccava. Parlami d'amore è un film insincero, che mette tantissima carne al fuoco e lo fa male, con l'unico scopo di drammatizzare situazioni che avrebbero necessitato di una maggior semplicità di narrazione e di messa in scena, di un maggior garbo e di una maggiore semplicità espositiva.
Muccino jr. parte nella sua avventura registica sparando alto, riadattando un romanzo (il suo) da oltre quattrocento pagine, e mirando ad emulare riferimenti altissimi, quali Godard e Bertolucci.
Il risultato è un'opera tronfia e pretestuosa, che si regge in piedi per la prima ora per poi crollare rovinosamente nella noia nella seconda parte.
Il tema scelto - quello di un triangolo amoroso tra un giovane disadattato, una femme fatale ricca e viziata, e una donna matura dal passato ingombrante - è complicato, di difficile dispiegamento sullo schermo, e si presta di per sé ad involgersi e avvilupparsi su sé stesso.
Il giovane regista non sfugge al pericolo, costruendo anzi le proprie sequenze in modo strutturalmente enfatico: la recitazione è sempre sopra le righe, la scenografia è volutamente pomposa, artefatta, la fotografia smaccatamente irreale. Alcune scene finiscono per destare un'involontaria ilarità.
Non si può dire che il giovane Muccino non ci abbia provato, rischiando comunque il nome e la firma su un progetto ambizioso, al di fuori forse della portata di un esordiente, nel quale credeva molto. Ma il risultato complessivo è tutt'altro che soddisfacente. Troppa carne al fuoco, come detto, e organizzata approssimativamente, ponendo l'attenzione sul tentativo di catturare, compiacere e sedurre a tutti i costi il pubblico, piuttosto che sull'aderenza ad una storia che, sviluppata in modo più semplice e lineare, avrebbe avuto molto da dire.