Si può individuare una sorta di "doppia anima" in un film come Il libro di Henry: un'opera multiforme, o meglio ancora bifronte, e dunque rischiosa già in partenza, che tenta l'azzardata impresa di mescolare registri e generi differenti, con repentini cambiamenti di prospettiva e nuove traiettorie di racconto. A firmare la sceneggiatura del film, un copione originale rimasto per diversi anni in attesa di arrivare sullo schermo, è non a caso un romanziere specializzato nel genere thriller, Gregg Hurwitz, qui al suo primo script per il cinema.
Alla regia di questo progetto troviamo invece un cineasta impegnato solitamente nel campo dei blockbuster di massime dimensioni produttive: quel Colin Trevorrow che, dopo il fortunato esordio del 2012 con la commedia indie Safety Not Guaranteed, ha visto la propria carriera spiccare il volo grazie all'enorme successo di Jurassic World e alla partecipazione al futuro Episodio IX di Star Wars (ingaggiato all'inizio come regista per poi restare solo in qualità di co-sceneggiatore). Il libro di Henry segna dunque per Trevorrow un film per certi versi più personale, slegato dalle convenzioni dei colossi hollywoodiani e attraversato, se non altro, da una maggiore libertà creativa.
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A proposito di Henry
Tale libertà si esprime nel corso di un intreccio insolito, e riguardo al quale è preferibile svelare il meno possibile. Pertanto, ci limiteremo ad osservare che la storia è incentrata attorno alla famiglia di Susan Carpenter (Naomi Watts), cameriera residente nella Hudson Valley e madre single di due ragazzi: Henry (Jaeden Lieberher, protagonista quest'anno anche del popolarissimo It), prodigioso undicenne dotato di un'intelligenza nettamente sopra la media, e il secondogenito Peter (Jacob Tremblay, il bambino di Room), molto legato al fratello maggiore. E a giudicare dalle prime battute, il tono del racconto sembra aderire appunto ai canoni di una tipica commedia adolescenziale a sfondo familiare: la prospettiva di Henry, dotato di un eloquio decisamente elaborato e già esperto (fra le altre cose) di ragioneria e alta finanza, trova come corrispettivo l'ironia e il senso di tenerezza che Trevorrow infonde a questa prima parte della pellicola.
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Fin qui nulla di particolarmente nuovo, beninteso; al contrario, certe atmosfere da coming of age, i quadretti di vita familiare e i personaggi sopra le righe (la vivace Sheila, interpretata da Sarah Silverman) sono tutti ingredienti assai noti in questo filone cinematografico. Ma giunta in prossimità del "giro di boa", la narrazione prende una svolta melodrammatica che - senza rovinare la sorpresa agli spettatori - altera in maniera radicale gli equilibri della trama, calcando sul pedale del pathos (pur senza sgradevoli eccessi) e trasformando da lì in poi Il libro di Henry in qualcosa di profondamente differente.
Dal dramma familiare al thriller hitchockiano
Dal personaggio di Henry, il baricentro emotivo e morale del film si sposta così a quello di Susan; ma soprattutto, è la pellicola stessa a subire una sorta di metamorfosi, scivolando progressivamente in direzione di un atipico thriller che può presentare addirittura qualche lontana eco hitchcockiana. Così quello che appariva come un subplot secondario, le presunte molestie su una compagna di classe di Henry, acquisisce sempre maggior peso, diventando l'ossessione di Susan e spingendola a drastiche scelte etiche. Insomma, una virata in direzione di territori quasi noir che, in teoria, avrebbe potuto rendere Il libro di Henry un'opera tesa e spiazzante: peccato però che proprio in questa seconda parte lo script di Hurwitz mostri tutti i propri punti deboli, mentre Colin Trevorrow fa un'enorme fatica ad amalgamare registri tanto distanti e a veicolare una suspense che non prende mai veramente quota.
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La drastica decisione di Susan, pronta a spingersi, con l'aiuto di Henry, lungo una strada quanto mai insidiosa, è contrassegnata infatti da evidenti forzature, con vari passaggi poco verosimili e una risoluzione frettolosa e di scarsa coerenza interna. E pure mentre corre sui binari del thriller (finendo talvolta sul punto di deragliare), il film di Trevorrow non rinuncia a quella patina più melensa che, nel finale, scade in un blando sentimentalismo, laddove magari avrebbero funzionato meglio l'adozione di toni più cupi o un pizzico di cattiveria in più. Al di là di qualche buono spunto, dunque, non stupisce la pessima accoglienza della critica americana, a cui è seguito un solenne tonfo commerciale in patria e la scarsa visibilità nel resto del mondo.
Movieplayer.it
2.0/5