Ci sono film che assomigliano ad una partita di bowling. C'è un protagonista (la palla) che ha una missione da compiere (abbattere i birilli) e un percorso ben delineato da seguire (la pista).
Il grande Lebowski avrebbe tutte le caratteristiche per rispettare questo rassicurante copione (una valigetta da consegnare in cambio di una ragazza rapita), ma la vita del Drugo va da tutt'altra parte, finisce nelle corsie laterali, non centra alcun obiettivo e sprofonda inesorabilmente dentro quell'oscuro buco nero che sta alle spalle dei birilli.
La Los Angeles dei fratelli Coen non fabbrica sogni ma alimenta teatrini dell'assurdo mentre sul palco va in scena la quotidianità, insensata eppure verosimile, di un uomo catapultato in una storia fatta di riscatti (di persone ma mai personali), continui equivoci, situazioni grottesche e amicizie che resistono allo scorrere delle cose.
Nel 1998 Joel e Ethan Coen dirigono un film dedicato a straordinari comprimari dell'esistenza, persone ai margini della società che si muovono, impazzite, nella città-emblema del cinema. Un film citazionista, delizioso per ogni cinefilo, che porta con sé un manifesto poetico dedicato a perdenti facili da amare.
Ecco quindici motivi per giustificare questo inevitabile colpo di fulmine:
1. Un protagonista irresistibile
Un incorreggibile inetto sboccato con la barba incolta, perennemente impregnata di White Russian. Jeffrey Lebowski, indolente e abitudinario, si trascina giorno dopo giorno nei suoi abiti sempre molto comodi e troppo larghi, all'interno di una vita circolare come una palla da bowling, ripetitiva e rinchiusa dentro i soliti luoghi e le solite persone. Un uomo più che normale che diventa di colpo protagonista di una vicenda più grande di lui attraverso una compiaciuta piccolezza che lo rende un personaggio accessibile e adorato dal pubblico. Ironico senza volerlo, svogliato e pigro come noi, seduti di fronte ad uno schermo, mentre lo guardiamo subire gli eventi, il Drugo non è solo un personaggio perché è credibile come persona grazie ad uno straordinario Jeff Bridges. Potrebbe essere là fuori e chiunque di noi lo vorrebbe come amico, un compagno ideale per una serata spensierata a base di birra, vecchi amici e vizi di qualsiasi altro genere.
2. Il cast
Il carisma di Jeff Bridges, l'autoironia di John Goodman, il fascino di Julianne Moore, il talento di Philip Seymour Hoffman e l'imprevedibilità di Steve Buscemi. I fratelli Coen confermano la loro capacità di gestire cast corali alla perfezione, orchestrando il talento di interpreti eccezionali, agevolati da una sceneggiatura ispirata e mai banale.
3. Il cameo di John Turturro
Due brevi apparizioni di John Turturro bastano per dare forma ad un personaggio indimenticabile: un giocatore di bowling tamarro e pieno di sé, un ispanico viscido che usa la lingua per lubrificare palle da bowling e per dispensare minacce colorite. Jesus è un idolo delle nicchie.
4. I look
I Coen hanno sempre curato il look dei loro personaggi in maniera maniacale. La frangetta inquietante e straniante di Javier Bardem (con tanto di pistola ad aria compressa) in Non è un paese per vecchi è ancora fissa nella memoria, così come la tenuta da personal trainer di un Brad Pitt quanto mai idiota in Burn After Reading - A prova di spia. In questo film l'abbigliamento è un vero e proprio co-proagonista, presente, ben visibile, mai banale perché rappresentativo di ogni carattere. I cambi d'abito di Bridges sono all'insegna della non curanza e della pigrizia con vestaglie, maglioni enormi, ciabatte inverosimili, pantaloni senza senso; come se fossero i primi abiti raccattati da un appartamento dove regna il disordine. John Goodman, reduce di guerra, è vestito come un cacciatore perennemente pronto a scattare; Julianne Moore è sempre pronta al nudo e John Turturro è imperdibile con la sua tuta color lilla e lo smalto al dito mignolo.
5. L'empatia con gli inetti
Questo film è forse il manifesto visivo della poetica dei Coen che ha nell'inetto il suo feticcio ricorrente. Personaggi sempre incapaci di agire e di imporsi sugli altri, persone che subiscono quello che gli altri e la vita stanno scegliendo per loro. Questa chiave di lettura della realtà avvicina il pubblico a protagonisti come Lebowski, proprio perché vincolati ad una normalità quotidiana e caratterizzati da difetti facilmente condivisi con lo spettatore. L'eroismo non è contemplato se non come definitiva accettazione di sé. La più grande delle vittorie che vale come uno strike.
6. I danni di Walter
Walter Sobchak, l'amico fedele del Drugo, è l'anima di questo film, una spalla comica eccezionale, personaggio intriso di preconcetti politici e sociali. Un reduce di guerra che non ha mai superato il trauma del campo di battaglia e per questo è sempre pronto a scatenare la sua irruenza e ferree convinzioni che portano puntualmente a gaffe esilaranti. La macchina distrutta, il signor Lebowski sollevato dalla carrozzina, le ceneri di Donny sparse "al vento". Una sfilza di momenti imbarazzanti in cui è impossibile trattenere ciniche risate.
7. La colonna sonora
Il grande Lebowski è anche un jukebox impregnato d'America. Dal folk al country, passando per suggestioni latinoamericane, la musica segue i passi ondivaghi del Drugo e forma un collage sonoro vario ma sempre coerente con quanto sta avvedendo sullo schermo. Così succede che Bob Dylan conviva alla perfezione persino con i Gipsy Kings.
8. Il meta-cinema
Quest'opera ipertestuale è stata ideata e scritta con un evidente piacere ludico. I Coen si sono divertiti a giocare con i generi del cinema scrivendo un film camuffato da crime story, ma che spazia nel noir sino a sfiorare il musical. Le citazioni pulp, memori di Quentin Tarantino (dalla valigetta all'attenzione feticista per i piedi), si alternano ad altri rimandi espliciti come quello kubrickiano del mitico sergente maggiore Hartman.
9. La marmotta nella vasca da bagno
Le scene esilaranti si sprecano e vanno a comporre ognuno dei 118 minuti del film, ma se proprio dobbiamo sceglierne una, troviamo che l'irruzione dei Nichilisti nell'appartamento di Lebowski raggiunga la vetta dell'assurdo. Tre uomini vestiti in maniera improbabile che tengono una marmotta al guinzaglio per poi gettarla in una vasca da bagno. Descriverla serve a poco, bisogna solo gustarla e rigustarla.
10. La critica dell'arte
Uno degli obiettivi dei due registi è stato quello di evidenziare le esasperazioni di diverse forme d'arte: la pittura, il teatro e il cinema (porno) vengono parodiati e rappresentati come valvole di sfogo per persone fuori di testa. L'ambiente artistico è del tutto alienato dalla realtà ed è abitato da fantocci radical chic.
11. I viaggi allucinati
Di russo non c'è solo il cocktail preferito di Jeffrey, ma anche una matrioska visiva. Il grande Lebowski è una visione nella visione, un "inception" ante litteram svestito di sogni e sovraccarico di allucinazioni. I deliri del Drugo rappresentano uno dei punti più alti della regia dei Coen che si sbizzarriscono in inquadrature ardite (come quella dall'interno della palla da bowling), movimenti sgraziati e composizioni artistiche d'avanguardia quasi surreali. Le espressioni di Bridges, perso di un paese delle meraviglie tutto suo, fanno il resto.
12. L'eco del culto
Un culto per chiamarsi tale deve essere alimentato nel tempo. Il capolavoro dei Coen continua a essere celebrato con costanza attraverso il Lebowski Fest, un raduno di fan del film che dal 2002 si tiene ogni anno a Louisville e in altre cittadine americane. Visioni collettive con spettatori di tutte le età, barbecue, bevute ad oltranza, immancabili partite di bowling, ma soprattutto quelli che potremmo definire i pionieri dei cosplayer occidentali. Da ormai dodici anni infatti il Lebowski Fest ospita parate di fan vestiti come i loro idoli, perché essere il Drugo significa prima di tutto condividere e avere qualcuno con cui alimentare il caos.
13. La scorpacciata di MacGuffin
Il MacGuffin è un espediente narrativo molto usato nel cinema. Definito da Alfred Hitchock, si tratta di un oggetto utile soltanto ad avviare l'azione del protagonista di una storia, dando un motivo per smuovere un'iniziale situazione di tranquillità. Un vero e proprio pretesto che poi si rivelerà del tutto insignificante per protagonisti e spettatori. Ebbene, Il grande Lebowski mette in scena una scorpacciata di MacGuffin, a partire dal tappeto maltrattato per poi continuare con la valigetta, il dito mozzato, il compito corretto. Una sfilza di depistaggi che non portano a nulla ma riempiono di delirio una storia che ha nell'insensatezza il suo significato più nobile.
14. L'uomo del bar
La voce narrante che apre il film prende per mano lo spettatore e lo conduce nella vita del Drugo, rappresentando un testimone che sta per confessarci qualcosa. Poi questa guida scompare, salvo poi apparire per ben due volte come compagno di bevute ad un bancone. Quello sguardo in camera finale conferma che forse quel personaggio baffuto con cappello, rappresentazione dell'uomo comune, è davvero un nostro complice, è uno di noi.
15. La lezione di vita
"Il Drugo sa aspettare". In mezzo ad inseguimenti, rincorse e situazioni paradossali, emerge una morale semplice ma a suo modo molto significativa: Jeffrey accetta la vita come viene, dimentica presto il male e i torti subiti, non si fa sopraffare dalla necessità del danaro e si gode l'esistenza. Una vita composta da piccole cose (amici, bowling, vizi), senza grandi aspettative e proprio per questo sempre capace di sorprendere.