Recensione Brazil (1985)

Un potente incubo metropolitano costellato di frammenti onirici degni del miglior Fellini e abbondamente cosparso del più tipico humor inglese targato Monty Python.

Il futuro che non ti aspetti

Che cosa potrebbe venir fuori da un eventuale incontro/scontro tra George Orwell e Franz Kafka? Semplice, un potente incubo metropolitano costellato di frammenti onirici degni del miglior Federico Fellini e abbondamente cosparso del più tipico humor inglese targato Monty Python. Con Brazil Terry Gilliam ci dona il suo capolavoro assoluto, una delle pellicole più importanti dell'era moderna, così splendidamente anarchica da costituire una minaccia per l'ingessato panorama delle majors hollywoodiane tanto che gli stessi executive della Universal, visto il risultato, decisero di tenere il film a lungo nel cassetto per poi distribuirlo negli USA in versione tagliata. Ingiustamente snobbato dai più, nonostante gli apprezzamenti della critica e le due nomination ricevute, e dimenticato al punto da saltar fuori sporadicamente solo in qualche cineclub d'essai, Brazil resiste inossidabile allo scorrere del tempo mantenendo un'attualità e una modernità assolutamente uniche per un'opera fantascientifica. La paradossale epopea dell'impiegatuccio Sam Lowry, sereno e pacifico nella propria rassicurante mediocrità tanto da opporsi risolutamente a ogni promozione, il cui tran tran quotidiano viene turbato da un errore burocratico che lo trascina in uno stupefacente vortice di avventure, è paradossale se comparata con gli altri mondi futuri preconizzati dai vari scrittori di genere.

Un'odissea personale che si svolge "da qualche parte nel ventesimo secolo", dove la variegata umanità della metropoli senza nome in cui si ambienta Brazil è costretta a barcamenarsi tra le incursioni di un grande fratello, che si materializza tanto nella violenza cieca e brutale della polizia quanto nell'impietosa burocrazia di grigi impiegati e fastidiosi operai, e le improvvise deflagrazioni causate da ignoti e minacciosi terroristi che puntano allo sconvolgimento del sistema. L'unica fuga possibile da questa realtà risiede in momentanei squarci lirici, visioni oniriche in cui Sam può trasfigurarsi nei panni di eroe alato pronto a salvare un'incantevole fanciulla sconosciuta, fanciulla in cui ben presto l'impiegato si imbatterà anche nel mondo reale rinunciando alla propria esistenza per poterla salvare e amare. L'inizio del film, da antologia, ci catapulta immediatamente in questo sistema dominato dal cieco strapotere del governo e dalla tecnologia, dove la spersonalizzazione degli individui passa attraverso un unico ancoraggio al passato, i vecchi film che invadono gli schermi ventiquattrore su ventiquattro, nutrendo e anestetizzando le menti degli uomini.

Terry Gilliam scatena tutta la sua potenza visionaria nella costruzione e nella rappresentazione della cupa città senza nome giocando con le luci e ombre che si allungano sugli enormi edifici barocchi, i corridoi strettissimi, i claustrofobici uffici dove si decide il destino delle persone. La macchina da presa si muove ora maestosamente ora febbrilmente tra palazzi art nouveau, case postmoderne invase da tubi metallici, sontuose dimore dove abitano coloro che stanno ai piani alti e muovono i fili, per poi toccare la sterminata periferia, una lunga arteria semidesertica delimitata da enormi cartelloni pubblicitari che nascondono alla vista la desolazione da "war zone" in cui vivono coloro che stanno ai margini della civiltà. Alla mescolanza di epoche e stili nella ricostruzione scenografica si affianca un uso sapiente della luce e del colore: i chiaroscuri potenti, i giochi di luce ottenuti con le variazioni cromatiche sulla scala dei grigi che fotografano gli uffici e l'apparato burocratico di cui Sam fa parte, uniti ad angolazioni inusuali della macchina da presa e ad un montaggio dal ritmo potente, dichiarano apertamente il proprio debito verso l'Espressionismo tedesco e il noir, Metropolis e Orson Welles. A interrompere questo incubo notturno concorrono improvvise le esplosioni di colore con cui viene rappresentata l'alta società che frequenta ristoranti in, lussuosi ricevimenti e grandi magazzini alla moda. Lo sguardo impietoso del regista si concentra sulla rappresentazione di questo mondo fatto di piccoli impiegati stupidi e svogliati, di donne di mezza età intente a farsi un lifting dopo l'altro per mantenersi eternamente giovani e di feroci funzionari che detengono l'ordine in nome di un invisibile potere superiore. La critica sociale nei confronti di questa realtà si fa ancora più feroce grazie ad un'accentuata dimensione satirica che intensifica la durezza dei giudizi sulla società immaginaria e i ben poco velati riferimenti politici al mondo attuale.

Strepitosa l'interpretazione del protagonista, il britannico Jonathan Pryce nel ruolo che gli ha valso un'intera carriera, il quale, con una recitazione sentita e piena di sfumature, dà vita al povero Sam, rendendo convincente il suo passaggio dal tetro grigiore della propria mediocrità di burocrate a una rischiosa ribellione al sistema e il suo farsi permeare dal desiderio di libertà e dall'amore per la bella Jill. In piccoli camei, Ian Holm, Bob Hoskins e un irriconoscibile Robert De Niro, fautore della resistenza al sistema avvolto nella sua tuta di idraulico anarchico e sabotatore che lo fa assomigliare in tutto e per tutto a un supereroe dei fumetti. La visione apocalittica di Brazil si chiude su un falso lieto fine, che la produzione originariamente tentò di appiccicare in malo modo al film, ma che viene immediatamente negato dall'immagine conclusiva di Sam.
Gilliam sfrutta, ancora una volta, il potere illusionistico del cinema per lanciare un potente messaggio di denuncia e squarciare così il velo che offusca l'immagine di un mondo alla deriva e lo fa alla propria maniera, con disincantata ironia, mentre nell'aria si dissolvono le allegre note di una canzone sudamericana, eccentrica colonna sonora di questo incubo a 35 mm.

Movieplayer.it

5.0/5