Il sistema dei generi - sovrastruttura su cui si basa il ponteggio culturale e produttivo di Hollywood - deve molto all'opera di Stanley Kubrick. E non tanto perché, come altri autori, tipo Haward Hawks o Billy Wilder, il regista newyorkese abbia identificato il proprio cinema con questo sistema al punto da onorare ogni codice quasi fosse un sancta sanctorum colmo di istruzioni e procedure da osservare alla lettera per ri-produrre il genere ad un sempre più elevato grado di purezza; per la ragione opposta, semmai. Perché Kubrick, pur non potendo, da buon americano, far finta che i generinon esistessero, di fatto li ha usati per intenti che hanno sempre oltrepassato il codice, con ciò stesso rinnovandolo; e perché li ha piegati, con fredda determinazione, a un'idea di Cinema inedita e innovativa, lontana dagli schemi narrativi classici, e orientata a realizzare, con la Settima Arte, un'espressione finalmente totale, all'interno della quale i vari modi del comunicare umano giungessero alla simbiosi assoluta e alla completa autoreferenza.
Partendo dai generi, i film di Kubrick hanno sempre teso a manifestare, alla massima potenza, le virtù straordinarie del mezzo-Cinema: l'immagine più il movimento più la scrittura più la musica più il montaggio e più ancora, dentro un grumo inestricabile al cui interno nulla è più scindibile da nulla, nel miraggio d'una comunicazione ormai onnicomprensiva e massimamente performante. Il titanismo di Kubrick, insomma, persegue l'idea che il Cinema sia perfettamente in grado di costituirsi come universo autoreferenziale di significanti e che, in quanto tale, sia capace di risussumere in sé tutta l'esperienza umana e farsi mondo accanto al mondo. È chiaro che, come ogni utopia, il disegno kubrickiano ha potuto esplicitarsi solo a frammenti, in qualche rara sequenza o immagine della sua in fin dei conti scarna filmografia. Quel che conta, però, è l'idea di totalità che sempre ha guidato il suo cinema, nello sforzo d'una tensione costruttiva senza precedenti, che ha coinvolto la sua vita personale - le ore infinite passate al tavolo di montaggio a raffinare, fino alla perfezione, i ritmi e gli incastri - ma anche quella dei suoi attori; e che, al di là della vita, ha mutato il tessuto semiotico dei romanzi da cui son tratte le opere - tessuto sempre tirato al massimo in fase di sceneggiatura -, e l'apparato produttivo del cinema stesso - si pensi all'uso estremo della steadycam, in Shining, all'invenzione degli effetti visivi, in 2001: Odissea nello spazio, o, ancora, alla ricerca maniacale di obiettivi fotografici tesi all'eccellenza -; e che, infine - appunto -, ha sconvolto i codici di genere, che Kubrick ha ri-elaborato ai limiti del possibile, sino a farli diventare altro da sé. Ecco perché i generi devono molto a Kubrick.
Tale processo d'analisi, decostruzione e reinvenzione di qualcosa d'altro è cominciato fin da subito, col primo lungometraggio del nostro, quel Fear and Desire del '53 mai uscito in Italia e considerato dalla critica come un primo tentativo, peraltro poco riuscito, di raccogliere stili, temi e ossessioni d'una poetica già personale. Sulla scorta d'una narrazione bellica, che racconta una guerra fantasmatica tra truppe e soldati il cui minimo comun denominatore è una sconcertante rassomiglianza, Kubrick mette in scena uno spettacolo che adotta, come punti di riferimento, la riflessione freudiana sulla psicanalisi di massa e l'estetica dell'avanguardia surrealista: ne esce un film apparentemente incongruo eppure già deciso a riplasmare il genere bellico, nell'intento di cambiare il segno del suo messaggio, che, qui, non è più il valore positivo dell'eroismo, dell'amicizia virile e del rispetto delle regole ma, al contrario, diventa la profonda irrazionalità d'ogni guerra, al di là dei motivi e delle cause che l'hanno potuta scatenare.
I due film successivi si basano, invece, su un tappeto di segni inequivocabilmente noir. Il bacio dell'assassino, del '55, srotola sapientemente icone e atmosfere tipiche del genere- il pugile perdente, la ragazza sfruttata dal principale carico d'ogni segno negativo, il desiderio del pugile e della donna di fuggire, con la forza, da una realtà che li opprime e devasta - ma le rinnova, ancora, facendo leva su di una rappresentazione che si pone a metà strada tra la consolazione diegetica della fiaba e l'escavazione angosciosa nei meandri profondi della psiche. Rapina a mano armata, del '55 - '56, rivolta il noir come un guanto e compie la prima delle grandi riflessioni metacinematografiche di Kubrick, col mettere in evidenza i principi di costruzione, soprattutto temporale, del congegno narrativo.
Con Orizzonti di gloria, del '57, Kubrick torna al genere bellico e, anche se stavolta i modi della rappresentazione obbediscono quasi integralmente ai principi d'unità di tempo, di luogo e d'azione d'origine aristotelica e l'iconografia, in modo un po' paradossale, fa la sponda tra la classicità dell'inquadratura frontale e l'espressionismo degli spazi in prospettiva distorta, il film, di nuovo, si pone come atto d'accusa nei confronti delle convenzioni irrazionali e antiumane del militarismo.
Nel '60, dopo mille traversie registiche e produttive, esce uno dei primi kolossal del peplum, quello Spartacus che, prodotto, in prima persona, dall'interprete-divo Kirk Douglas, aveva visto alternarsi, in cabina di regìa, prima Anthony Mann e poi, di seguito, Kubrick e Mario Soldati. Tra i tre registi, quello che segna di più l'impianto narrativo e spettacolare del film è proprio Kubrick, e non solo per quella speciale consapevolezza del linguaggio che ormai gli è propria ma anche perché, nella computa delle ore girate e montate, quelle di Kubrick risultano essere la maggior parte. In tal senso, Kubrick regala al peplum una resa straordinaria - e mille volte imitata - dei complessi movimenti di massa e, dal punto di vista del contenuto, compone un discorso molto lucido e ben argomentato sul conflitto di classe, quello tra sfruttati e sfruttatori, a tal punto che molta critica dell'epoca inserirà quest'opera, così intrisa di spettacolarismo hollywoodiano, nella lista nera dei film sovversivi.
Strano caso è quello di Lolita, del '62. Tratto dall'omonimo romanzo di Vladimir Nabokov, è difficile assegnare al film una ben precisa etichetta di genere. Si tratta, semmai, del ripensamento, assai colto, e razionale - laddove i precedenti inclinavano, invece, a una certa morbosità -, di quel cinema che, in tutta Europa, ma soprattutto nei paesi danubiani, a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, aveva raccontato dell'inestricabile intreccio che annoda la pulsione di morte al desiderio d'amore - in altri termini: Eros a Thanatos -. Nella storia del già maturo professore che uccide per amore di Lolita ci sono tutte le ossessioni e i sensi di colpa con cui, da sempre, la cultura cattolica ha provato a stigmatizzare l'espressione libera e aperta del puro desiderio. Sorprende, qui, la glacialità dello sguardo di Kubrick, che mette in scena i suoi personaggi quasi fossero parti di un ingranaggio semovente che può condurre solo alla morte e all'autodistruzione.
Nel '64, con Il Dottor Stranamore, ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, Kubrick cambia totalmente registro. Il riferimento di genere, adesso, è più preciso, e si pone nell'alveo di quella nuova comicità demenziale che stava trovando, proprio in quegli anni, nelle opere di Blake Edwards interpretate da Peter Sellers, la massima espressione. Non a caso, anche nel film di Kubrick, Sellers fa la parte del mattatore, interpretando, addirittura, tre personaggi diversi. Di nuovo, però, la codifica di genere, per quanto recentissima, viene piegata agli intenti autoriali di Kubrick: il film, così, pur non abbandonando mai l'ispirazione comica di partenza, si trasforma ben presto in sferzante satira politica, che ha per obiettivo la mancanza di logica della Guerra Fredda e, in fondo - e di nuovo -, l'insensatezza di qualsiasi altra guerra.
Al '68 - anno cruciale di mille e mille esperienze di questa nostra tormentata contemporaneità - risale l'opera forse più ambiziosa dell'autore newyorkese, che, oramai, da Lolita, lavora stabilmente in Gran Bretagna. Con 2001: Odissea nello spazio, Kubrick torna ad affrontare un genere di lunga tradizione e, perciò, fortemente codificato: la fantascienza. Più che mai, però, l'operazione d'arricchimento al livello dei codici si fa esplicita e dichiarata, nell'intento di far esplodere la science fiction fino a farle raggiungere il rango d'un'autentica filosofìa per immagini. I tre capitoli che compongono la trama narrativa del film, infatti - e cioè: L'alba dell'uomo, Diciotto mesi dopo: in missione verso Giove e Giove e oltre l'infinito -, sono nient'altro che simboli di un viaggio - l'odissea, appunto - ben più grande e sconfinato: il viaggio dell'uomo alla scoperta del sapere, rappresentato magistralmente da un monolito nero che, a ben guardare, è il vero protagonista del film; o, ancora, il viaggio dell'uomo attraverso il tempo - in opposizione allo "spazio" richiamato dal titolo del film -, nell'inusitata relativizzazione dei piani temporali che produce la loro virtualità e fa sì che l'astronauta Bowman, lungo un percorso chissà se oggettivo o soltanto mentale, dagli spazi interplanetari di Giove ripercorra una durata che lo conduce in una stanza settecentesca, dove, in pochi minuti, e di nuovo al cospetto del monolito nero, diventa vecchio e muore e poi rinasce, come feto indistinto che galleggia nello spazio.
Il cult-movie del '71, quell'Arancia meccanica che, per anni, ha subito le censure di tutto il mondo, restituisce a Kubrick, dopo le astrazioni di Odissea, la concretezza dell'iper-realismo. Tratto dall'omonimo romanzo di Anthony Burgess, l'autore, oramai famoso in tutto il mondo, affronta, d'acchito, un genere che, in fondo, a ben pensarci, ha avuto, nella storia del cinema internazionale, vita fin troppo breve: il pamphlet o apologo politico, tipico di quegli anni di speranze e sovversioni e diffuso soprattutto in Europa. In tal senso - film britannico diretto da un americano -, Arancia meccanica non si nutre di nessuna delle ideologìe che allora gridavano alla rivoluzione e, perciò, non può essere definito film militante, perché, in fondo, il suo argomentare trascende qualsivoglia adesione spicciola e diviene discorso globale sulla violenza, la quale, nel film, si configura come l'elemento onnicomprensivo e basilare della comunità, il collante del tessuto sociale, necessario a regolare, in ogni caso, ogni forma di rapporto umano. Tesi lucidissima - e attualissima, se si vuole -, per mezzo della quale Kubrick dimostra di saper inglobare e trascendere persino le regole di un genere nuovissimo.
Con Barry Lyndon, del '75, Kubrick torna a cimentarsi con un genere di lunghissima tradizione, vecchio quanto il cinema, si potrebbe dire, e cioè il romanzo storico. Di quest'ultimo l'autore dà, come sempre, la sua personale interpretazione: del tutto disinteressato, infatti, a costruire un affresco storicamente attendibile, Kubrick si concentra quasi esclusivamente sul milieu della vicenda, ricostruendo, nelle sue inquadrature, sempre introdotte da uno zoom in allontanamento che svela pian piano un ambiente, i punti di vista della pittura inglese del Settecento e dell'Ottocento; dal punto di vista dei contenuti, poco sembra importargli di spiegare allo spettatore le reali dinamiche che muovono la società rappresentata; piuttosto, l'attenzione si concentra sull'inevitabile fallimento del personaggio principale, che diventa, così, nell'ambito d'un film storico che giunge all'universalità e, quindi, alla filosofia, il simbolo imperituro d'ogni parabola umana, che, per Kubrick, è sempre, e sempre più, splendore e decadenza.
E filosofico è anche l'orrore di The Shining, dell'80, diretto e costruito a partire da uno dei romanzi più interessanti di Stephen King. Qui, il genere horror _giunge alle sue massime potenzialità d'invenzione, perché, al di sotto d'una narrazione _thriller che non può non avvincere, scorrono temi fondamentali della cultura contemporanea, quali il rapporto padre-figlio - rovesciato di segno, però, come se a patire il complesso edipico non possa essere se non il genitore, che soffre, biologicamente, la gioventù e la vitalità del piccolo uomo; o come, di nuovo, l'intreccio inestricabile della virtualità del tempo, in ragione della quale il protagonista dell'azione si trova a vivere, contemporaneamente, su piani temporali diversi, immerso in una durata che non distingue, ormai più, il presente dal passato e dal futuro.
Full Metal Jacket, dell'87, è da molti considerato l'opera più bella di Kubrick. Film bellico per eccellenza, che racconta, nella prima parte, l'addestramento di un gruppo di marines e, nella seconda, le vicende del gruppo durante la guerra del Vietnam, la pellicola è forse anche la più semplice dell'intera filmografia kubrickiana. Semplice ma non semplicistica, però: ancora, infatti, a partire dai rinnovati codici del genere bellico, si fa estrema, e assoluta, la condanna di qualsivoglia irregimentazione militare e, ancor più, d'una guerra dichiarata d'intervento democratico ma espletata soltanto a uso e consumo del potere politico interno e internazionale. Ogni riferimento a cose e fatti dell'attualità non è puramente casuale. E restano in mente, come un obbrobrio assoluto, le note della "Marcia di Topolino" cantate dai marines mentre attraversano territori fumanti di cadaveri assassinati e di case e cose date alle fiamme.
L'ultimo film kubrickiano, Eyes Wide Shut, uscito nel '99, si libera, finalmente, da ogni ipoteca di genere. Liberamente tratto da Doppio sogno, il breve romanzo di Arthur Schnitzler su cui Kubrick fantasticava da anni, il film è la parziale riuscita del delirio del regista: raccontare, soprattutto con le immagini e i suoni - si veda, al proposito, la lunga e debordante sequenza dell'orgia -, la fatale ambiguità dell'essere umano, sospeso tra ragione e istinto, in una lotta senza fine che attraversa la notte del protagonista e anche, simbolicamente, quell'eterna opacità su cui si dispiega la vita d'ogni uomo.
(Stefano Salvadori)