Il dottor Morte e il rispetto per la vita
Il dibattito sull'eutanasia e, più in generale, sul diritto a una morte dignitosa scuote l'opinione pubblica da decenni. Cosa si possa e cosa non si possa definire vita, o quale soglia il dolore debba superare prima di essere giudicato insensato sono interrogativi difficili da dirimere, specie se, nel giudizio, alla considerazione per la volontà dell'individuo si antepongono principi e convinzioni aprioristiche, che poco o nulla sanno del tormento e della sofferenza su cui pretendono di deliberare. Il vuoto legislativo in materia, della stragrande maggioranza degli stati europei oltre che degli stessi Stati Uniti, ci dà la misura di come, aldilà di alcuni casi particolari capaci di risvegliare momentaneamente le coscienze, molto ci sia ancora da dire, e da fare, per assicurare a tutti il diritto di scegliere sui propri ultimi momenti. Primo a voler portare alla luce questa necessità nella società americana è stato il dottor Jack Kevorkian, medico in pensione che, prima di essere condannato per omicidio, ha praticato il suicidio assistito su oltre centotrenta pazienti.
Aiutato dalla sorella Margo e dall'amico ed ex allievo Neil, Jack ha rappresentato l'unica speranza per malati incurabili lasciati a sè stessi dalla legge e dalla medicina. Nel Michigan degli anni Novanta il suo operato non è certo passato sotto silenzio: le associazioni cattoliche e rampanti studi di avvocati non hanno mancato l'occasione di regalargli popolarità, che il medico di ascendenza armena ha sfruttato per portare l'argomento all'attenzione dei media e, di conseguenza, a quella della gente. Assistito gratuitamente dal famoso avvocato Geoffrey Fieger, Jack riuscirà ad evitare tutte le condanne, sulla base dell'inesistenza del reato di "suicidio assistito", e a continuare la propria battaglia per il diritto di scelta nonostante la revoca della licenza medica. Sarà soltanto dopo la morte dell'amica Janet Good, che, oltre a condividerne gli ideali, era l'unica a saper far emergere il lato più umano e privato di Jack, che il medico compirà il fatale passo contro la legge che gli varrà otto anni di prigione: praticare in prima persona un'eutanasia.
Sembra quasi superfluo sottolineare come Al Pacino dia il suo meglio proprio in ruoli di questo tipo, fondati su una personalità magnetica, da arringatore spietato e trascinante ma non privo di tormenti e di un vissuto doloroso. La trasformazione fisica, che lo vede invecchiato e appesantito per incarnare il protagonista ben poco attento al glamour, è il complemento perfetto di un'interpretazione magistrale, a cui non sono seconde quelle del resto del cast. La Sarandon e la Vaccaro, unite dalla simpatia e dalla fiducia reciproche ma soprattutto dalla preoccupazione per l'ostinazione alla solitudine di Jack, danno vita ad un rapporto in grado di mettere in luce tutta l'ironia e la compassione di cui le donne sono capaci.
La carismatica figura dell'avvocato Fieger, interpretato dal bravo Danny Huston, racchiude in sé tutta l'ambiguità di sentimenti come l'amicizia, la stima intellettuale, il desiderio di successo e popolarità.
Fulcro della vicenda, quindi, non è tanto il medico Jack Kevorkian, ma ciò che la sua battaglia ha rappresentato, oltre che per lui stesso, per le persone vicine a lui e per la società americana tutta. Mettendo in scena alternativamente la realtà dei pazienti di Jack, senza inutili pietismi o volontà di spettacolarizzare il dolore, e i dibattiti etici tra il medico e le (poche) persone a lui vicine, il film lascia trasparire chiaramente l'importanza di una riflessione sull'argomento, nella quale la pellicola può rappresentare un primo, fondamentale passo. Nonostante la prospettiva sia naturalmente quella di Kevorkian, il regista non dà una lettura smaccatamente di parte della vicenda del noto medico, mettendone in luce anzi tutte le contraddizioni e le debolezze a livello umano, e lasciando che siano i fatti a parlare per se stessi.
E' possibile che un uomo tendenzialmente misantropo, con una scarsissima capacità di relazionarsi con il prossimo e la ferma volontà di non accettare l'aiuto di nessuno, abbia più rispetto per la dignità della vita di coloro che della conservazione di ogni forma di esistenza hanno fatto la loro bandiera? Non bisogna essere irriverenti, intelligenti o artisticamente dotati come Jack Kevorkian (che, oltre che medico, è anche pittore e musicista appassionato) per guardare senza preconcetti alla realtà, e farsi guidare nei propri giudizi da una circostanziata obiettività. Ma forse c'è bisogno di tutta l'irriverenza, l'intelligenza, la capacità artistica di Kevorkian per spronarci ad affrontare quegli interrogativi che le circostanze fortunate o la pigrizia morale ci impediscono di porci, e nemmeno quelle indubbie qualità sono state sufficienti per raggiungere un obiettivo che non era solo la ragione dell'esistenza del protagonista, ma anche un'importante conquista sociale per tutti noi. Il senso del film sta tutto in questa speranza: la testardaggine e l'avventatezza del medico armeno gli hanno impedito di continuare il percorso che così coraggiosamente aveva intrapreso, ma non deve impedire a noi di farci domande su quali diritti vorremmo vederci riconosciuti, magari ricordando, come ricordava Kevorkian, che "morire non è un crimine".