Il Divin Codino, il film di Letizia Lamartire in streaming su Netflix dal 26 maggio, è un racconto che spiazza più volte, e che comincia ad accrescere l'emozione man mano che ci si avvicina al finale e che il cerchio si chiude, che si capisce il senso di un rapporto, quello tra Roberto Baggio e il padre, e il senso di una vita dedicata a un sogno, vincere i mondiali contro il Brasile. C'è un momento, proprio alla fine del film, proprio sui titoli di coda, in cui l'emozione è altissima. Quando vediamo il vero Roberto Baggio, nel giorno del suo addio al calcio, l'ultima uscita dal campo, l'ultima partita giocata, con la maglia del Brescia, contro il Milan a San Siro. È lì che, mentre Baggio raccoglie l'ovazione del pubblico, che vediamo quei suoi occhi, piccoli e limpidi, chiari e buoni. Quegli occhi ci sono ancora. E l'emozione è stata altissima, quando, in occasione della presentazione de Il Divin Codino alla stampa, a metà del programma è entrato in campo Roberto Baggio. Semplice, come è sempre stata la sua presenza sui media, a differenza del campo dove riusciva a fare l'impossibile con la palla tra i piedi. Roberto Baggio è vestito semplicemente con una t-shirt nera, i pantaloni neri e un paio di scarpe da ginnastica bianche. Nessun vezzo da star, nessun look studiato. Quei capelli neri che erano acconciati con un curioso codino con le treccine, che sono diventati il suo simbolo, ci sono ancora. Sono bianchi, ma sono sempre ricci e folti. Il fisico è leggermente appesantito, è quello di un atleta a riposo, che non deve dimostrare di essere eterno. E poi ci sono quei suoi occhi.
La storia del rigore non sarà mai archiviata
"Più di vent'anni in un pallone. Più di vent'anni ad aspettare quel rigore. Per poi scoprire che la vita era tutta la partita" canta Diodato ne L'uomo dietro il campione, il brano originale che chiude il film. E la chiacchierata con Baggio parte da lì, dal rigore sbagliato contro il Brasile, nella finale dei Mondiali del 1994, quelli americani, dopo che i tempi regolamentari e i supplementari erano finiti sullo 0-0. Un rigore che ha anche una parte centrale ne Il Divin Codino. "La storia del rigore non andrà mai archiviata, la porterò dentro per sempre" ci racconta. "È il sogno della mia vita calcistica, e per come è finita è qualcosa che non posso mettere da parte". "Io ho fatto il colpo finale, è quello il problema", dice sorridendo a chi ricorda, come è giusto, che tutti parlano del suo rigore ma nessuno mai di Massaro e Baresi che li sbagliarono prima di lui. Il Divin Codino ruota tutto attorno a quel sogno, a quella promessa fatta al padre, triste per l'Italia - Brasile 1-4 di Messico 70: vincere i mondiali per lui, vincerli contro il Brasile. "È qualcosa che ho ricorso da sempre" spiega Baggio. "Arrivare lì dopo averlo sognato per milioni di notti, dopo aver sognato la cosa in molti modi, la realtà è qualcosa a cui non avevo mai pensato. È qualcosa che non cancelli".
Il Divin Codino, la recensione: Roberto Baggio, la vittoria è l'amore della gente
Non c'è la Juve e neanche quella sciarpa viola a Firenze
Come vi abbiamo spiegato nella recensione de Il Divin Codino, il film sceglie di raccontare Baggio attraverso alcuni momenti chiave della sua vita e della sua carriera sportiva: gli inizi, i mondiali del 1994, Brescia e la ricorda ai mondiali del 2002. Sulla vita di Baggio si sarebbe potuta fare una serie in 10 stagioni. Così mancano tante cose: il passaggio dalla Fiorentina alla Juve, tutto il periodo alla Juve e quell'episodio storico in cui, tornando per la prima volta al Franchi di Firenze in bianconero, contro la sua ex squadra, uscendo dal campo raccolse una sciarpa viola che gli era stata gettata dagli spalti. "Quel gesto era un atto di gratitudine verso la gente di Firenze" ci spiega serenamente oggi. "Sono arrivato lì nel 1985 e per due anni non ho mai giocato: la gente mi ha aspettato e mi voleva bene, anche se non avevo mai visto il campo. Quello che è successo era solo un atto per dire grazie alla città, ai tifosi che mi hanno sostenuto in quegli anni difficili. E io non l'ho dimenticato". Anche in questo Baggio è un giocatore unico. Oggi un gesto così non lo farebbe nessuno, oggi che i calciatori baciano una maglia e la stagione dopo sono pronti a baciare la loro maglia nuova. A proposito di maglie, nel film c'è quella biancorossa del Vicenza, quella viola della Fiorentina ma nessuna delle maglie delle big. C'è molta maglia azzurra, quella della nazionale e poi quella del Brescia. Roberto Baggio è stato il giocatore d'Italia, il campione di tutti noi. "Sono state importanti a tutte devo dire grazie" dice a proposito delle squadre in cui ha giocato. E, conoscendolo, sei sicuro che non sono frasi di circostanza.
Quel desiderio infinito per raggiungere l'obiettivo
Guardando il film, scritto da Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo, capiamo, come lo capisce Baggio stesso, che alla fine è più importante il percorso che l'obiettivo. "Per quanto mi riguarda l'ho scoperto nella vita" spiega Baggio. "Uno guarda solo l'atto finale, ma se capisce che quello che tu dai durante la corsa per arrivare all'obiettivo, tutto quello che riesci a mettere in quel desiderio infinito che hai per raggiungere quell'obiettivo, puoi essere soddisfatto".
Come vivono i ragazzi oggi il calcio? Preferisco non giudicare
Vedere oggi il vero Roberto Baggio, la sua schiettezza, la sua semplicità, e guardare alcuni momenti in cui, nel film, impersonato da Andrea Arcangeli, parla con la stampa, ci fanno pensare a quanto diverso fosse dai calciatori di oggi. Ma cosa ne pensa Baggio? "Non lo so" risponde. "Lo vivo da fuori e non saprei giudicare bene come vivono i ragazzi il calcio. preferisco non giudicare". Il manager e amico Vittorio Petrone è riuscito a convincere Baggio ad aprirsi agli sceneggiatori e fare questo film con l'idea che potesse essere un insegnamento ai giovani: non abbandonare mai i propri sogni, fare dei sacrifici per raggiungerli. "Devo dire che se oggi siamo qua in gran parte è merito di Vittorio", conferma Baggio. "Io dicevo: ma figurati a chi interessa la mia vita, la mia storia. Mi vergognavo. Perché io sono cosi. Mi sono fatto trasportare e ne valeva la pena".
Il set e il Pallone d'Oro
Roberto Baggio allora si è deciso, si è aperto. E insieme alla moglie Andreina ha partecipato attivamente alla nascita del film, ha raccontato la sua vita, ha consigliato gli attori. "Io e mia moglie abbiamo cercato di dare il supporto maggiore che potevamo, di raccontare in maniera semplice la nostra vita, tutti gli episodi che sono successi e che sono parte della mia vita" racconta. "Lo abbiamo fatto stando anche dei giorni insieme anche per conoscerci e dare degli spunti importanti. Sono stato diverse volte sul set. Io e Andreina abbiamo letto la sceneggiatura, leggevamo le battute dei nostri personaggi, con Andrea e Valentina che prendevano appunti". Accanto ad Andrea Arcangeli, che è Baggio nel film, c'è Valentina Bellè nel ruolo di Andreina. E quel set ha avuto anche un ospite molto speciale. "In un momento del film ci voleva il Pallone d'Oro e siamo andati sul set con il Pallone d'Oro per renderlo ancora più reale. Per me sono stati dei momenti emozionanti, ricordavano quello che avevamo vissuto io e mia moglie".
Il karma della sofferenza
Tante cose di Roberto Baggio sono state capite solo dopo del tempo. Quel carattere schivo, ad esempio, poteva essere scambiato per antipatia. Quella sua riservatezza per scarso carisma. E anche il buddismo, la fede, o filosofia, abbracciata già dai tempi di Firenze (e raccontata molto bene nel film) era stata presa come una stranezza, un vezzo, e invece è una cosa importantissima. Lo ha aiutato ad accettare certe situazioni, a inserirle in un disegno, un "karma della sofferenza", come lo ha definito un tempo. Baggio, infatti, ha trovato ostacoli molto duri, spesso proprio quando era a un passo dalla vetta. "Quando mi avvicinavo al risultato finale, l'ultima fase del percorso diventava più difficile" spiega Baggio. "È il mio karma, quello ce mi trovo a dover combattere ogni volta che mi avvicino a qualcosa che desidero. Prima mi faceva soffrire perché non avevo l'arma per combatterlo. Poi ho scoperto la pratica buddista e lo affronto con serenità. Dover combattere contro queste cose evidentemente è la missione della mia vita, è un compagno di viaggio che non puoi mettere da parte quando ti fa comodo. È una cosa che mi pesava. Oggi so che è una cosa che ho dentro e che devo affrontare".
Mio padre, la possibilità di non arrendermi mai
Tutto questo è al centro del film, insieme al rapporto con il padre, interpretato da Andrea Pennacchi, un padre apparentemente duro, ma in fondo un buon padre, un uomo solido, concreto. "A una certa età non capivo bene cosa volesse dire, era come un nemico, era sempre rigido" ci racconta Baggio. "Ma poi alla fine è stata la base che mi ha dato la possibilità di non arrendermi mai. Ho una grande gratitudine verso mio padre. A volte non capiamo l'amore, la protezione, il desiderio dei nostri genitori di aiutarci. La speranza è che questo film possa servire a tante persone che hanno avuto problemi con in genitori. E poi, quando non ci sono più, uno ci pensa" dice commosso.
Il Divin Codino
Il Divin Codino prende il titolo dal più celebre tra i soprannomi di Roberto Baggio. Ma come è nato quel look così curioso? "Per gioco" risponde il campione. "In questo hotel in America c'era una cameriera di colore che aveva treccine stupende, e le feci i complimenti. Mi disse: perché non te le fai anche tu? Dopo due ore era lì che mi faceva le treccine. I capelli sono diventati più lunghi e l'unico motivo per non metterli negli occhi era metterci un elastico. Non avrei mai pensato che diventasse un simbolo. Poi la cosa mi è piaciuta, e l'ho tenuta per qualche anno".