Il destino ha deciso
Inutile negare il rilevante peso avuto da Humphrey Bogart e Ingrid Bergman nel successo universale di Casablanca. E' difficile vedere un attore diverso da Bogart fumare con disinvoltura la sua perenne sigaretta dietro una maschera glaciale, impassibile e rancorosa come la sua (inizialmente si pensò per il ruolo di Rick Blaine a Ronald Reagan). Sarebbe stato altrettanto complicato privare la storia di un'attrice come la Bergman con la sua inimitabile e fragile tenerezza, che sembra costantemente sul punto di spezzarsi.
La roboante colonna sonora di Max Steiner (autore, tra le altre, anche della partitura di King Kong) sottolinea quasi invisibilmente l'atmosfera di tensione generale. Ma è soprattutto la canzone "As time goes by" ad essere divenuta celeberrima grazie a Casablanca. La troviamo sempre nei momenti topici del film, ovvero quando occorre evocare, con tutto il suo carico di amarezza e nostalgia, il dolce ricordo parigino dell'allora felice coppia. Di una felicità effimera e instabile, però.
L'esperta regia di Michael Curtiz (tra i curatori del montaggio figura comunque anche Don Siegel, autore nel 1956 di un classico della fantascienza come L'invasione degli ultracorpi) ha valorizzato al massimo gli sforzi dei due grandi protagonisti, insieme all'ottimo apporto di un nugolo di comprimari d'altri tempi (tra i quali un ispido Claude Rains portato al successo nel 1933 da James Whale con L'uomo invisibile). La ricchezza della trama, a tratti addirittura piena di eccessive frammentazioni narrative (la Seconda Guerra Mondiale fa da sfondo ad un carosello di profughi, di spie e di disperati nel Nord Africa francese non occupato) è compattata senza eccessi figurativi dal regista di origini ungheresi (suo sarà nel 1943 l'Oscar per la miglior regia; ma Casablanca, insieme ad una marea di nominations, riceverà altri due Academy Awards: quello per il miglior film e quello per la miglior sceneggiatura).
Il sentimentalismo, che pur costituisce il filo sotterraneo della storia, nulla concede ai languidi abbandoni (anche il bacio appassionato tra Rick e Ilsa ha quasi il sapore di una sconfitta annunciata). La fotografia, però, non sottolinea soltanto l'esteriorità degli amori infranti e delle dolorose rinunce, creando invece all'interno del Rick's Café Américain scenari saturi di ombre, di fumo e di spiccati dettagli. Tutti elementi che ben si sposano con l'ambientazione esotica pur non riuscendo mai a travolgere del tutto i personaggi.
Il tocco di Curtiz si segnala per almeno due momenti, ovvero quello della lettera d'addio di Ilsa che si scioglie sotto i colpi della epocale intemperie scatenatasi sulla stazione parigina, e quello del finale dove, con movimenti della mdp di una rara essenzialità, viene recuperata la dimensione intima dei due amanti perduti: dopo l'addio, Ilsa e Victor si allontanano nella nebbia (che qui sostituisce, allusivamente, la perenne nuvola di fumo che domina il locale di Rick); Curtiz, invece di farli scomparire all'orizzonte, stacca subito con un controcampo che riprende i due in piano medio, per poi spostare rapidamente la mdp su un primo piano della Bergman con gli occhi tumidi; altro stacco, e questa volta è Humphrey Bogart, finalmente libero dal risentimento ma con una tristezza immensa nel cuore (e stampata, come una cartolina, sull'imperturbabile volto), ad essere inquadrato; in conclusione Rick e il Capitano Renault si allontanano dal nostro sguardo (proprio come Ilsa e Victor ad inizio sequenza) fino allo spuntare del The End conclusivo. Raramente nel cinema il dolore della rinuncia e la fatalità del destino che ha travolto i due innamorati con eventi più grandi di loro, sono stati rappresentati meglio come in questi pochi istanti del finale di Casablanca. Che sarà pure "Un bel posto per morire" come dice Rick. Ma noi siamo convinti che questo cult, venerato da generazioni di cineasti e di semplici appassionati, non morirà mai.