Il cuore nero della provincia
Ogni tanto qualcuno, in Italia, prova ancora a girare dei thriller. Ogni tanto quel qualcuno ci riesce, e tira fuori prodotti interessanti, problematici, con una specificità di sguardo che lascia ben sperare per un panorama ancora asfittico e schiacciato da un mainstream sempre più standardizzato: quel qualcuno risponde ai nomi di Matteo Garrone e Paolo Sorrentino, autori preziosi che il nostro cinema farebbe bene a tenersi stretti. Qualche altra volta il tentativo riesce meno bene, ed è il caso di questo La ragazza del lago, esordio dietro la macchina da presa di Andrea Molaioli (già aiuto regista di Nanni Moretti), appena presentato al Festival di Venezia nella Settimana Internazionale della Critica.
La storia, ispirata a un romanzo della scrittrice norvegese Karin Fossum, prende le mosse dall'omicidio di una ragazza in un tranquillo paesino della provincia friulana: a indagare viene chiamato un poliziotto di mezza età, già alle prese con seri problemi familiari, che scopre un calderone di drammi personali, miserie piccole e grandi, affetti deviati e mutati nel loro inverso, che lo scuotono nel profondo mettendo a dura prova il suo ostentato distacco professionale.
Il distacco che non sembra invece mai mancare è proprio quello di Molaioli, che "asciuga" a tal punto la materia del thriller da trasformare il film in uno spaccato asettico, quasi neorealista, di una realtà di provincia di cui vengono lentamente portate alla luce le miserie. L'indagine in sé ad un certo punto perde di importanza di fronte alla galleria di drammi di cui il protagonista diventa spettatore, quasi l'omicidio sia un grido di allarme per una sofferenza che, malgrado tutto, vuole farsi sentire: il ragazzo ritardato con il padre misogino e ridotto sulla sedia a rotelle, il fidanzato con i suoi segreti e i suoi silenzi, la coppia separata che ha appena perso il figlio disabile, i dubbi sulla stessa famiglia della vittima. Il tutto narrato con un registro che tiene volutamente le distanze dal materiale trattato, penetrando nel privato dei personaggi senza nulla concedere alla partecipazione emotiva. La regia si adegua a tal punto al registro piano, asettico della sceneggiatura (firmata da Sandro Petraglia), da risultare spesso piatta e priva di personalità. Nella descrizione della devianza insita, e (mal) nascosta nella "medietà" della provincia, quello che manca è un contraltare che riscatti sul piano intellettuale la (voluta) freddezza dello script.
Le evidenti buone intenzioni insite nell'operazione non riescono ad evitare che il film cada su una generale mancanza di incisività, su una messa in scena che, più che minimale, appare proprio minima. Così, proprio il rapporto con lo spettatore e con il suo vedere, su cui il film gioca fin dalle prime scene, viene compromesso da un approccio fin troppo (programmaticamente?) intellettuale alla materia. Alla fine, così, ciò che resta è soprattutto il volto impassibile, su cui ogni tanto si apre qualche crepa che lascia intravedere ciò che si agita sotto, di un Toni Servillo che rivela un'aderenza quasi mimetica al suo, non facile, personaggio.
Movieplayer.it
2.0/5