Non è facile, oggi, trovare un cineasta in grado di dividere la critica e le platee con la stessa virulenza di quanto riesca a fare Nicolas Winding Refn, classe 1970, nato a Copenaghen e conterraneo di quel Lars von Trier che, con diversi anni d'anticipo, aveva già avuto occasione di spaccare il pubblico fra accesi sostenitori e altrettanto fervidi detrattori. E la misura in cui Refn riesce a polarizzare le reazioni alla sua peculiare visione cinematografica ci è stata data, proprio nei giorni scorsi, dal suo ultimo, attesissimo lavoro, The Neon Demon.
Co-produzione fra Danimarca, Francia e Stati Uniti, The Neon Demon ha suscitato le reazioni più disparate al Festival di Cannes 2016, imponendosi fra le pellicole più controverse del concorso, e sta registrando cifre piuttosto modeste al box office italiano. Un'accoglienza alquanto prevedibile, in verità, dal momento che The Neon Demon rappresenta probabilmente il punto più estremo toccato finora dalla poetica di Refn: un regista che sta proseguendo lungo un percorso singolare e personalissimo, a dispetto delle molteplici influenze (da David Lynch in poi) che i critici tentano di attribuirgli, e restando fedele a una concezione dell'opera filmica che, a prescindere dai gusti e dalle opinioni, di certo non può lasciare indifferenti.
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Dalle "strade violente" alle luci di L.A.: il lungo viaggio verso la notte
Del resto, quella di Refn è una pellicola volutamente provocatoria e spiazzante, che sfrutta un abusato canovaccio sulla falsariga de La valle delle bambole - l'arrivo a Los Angeles di Jesse, ingenua sedicenne di provincia con il sogno di costruirsi una gloriosa carriera nel mondo della moda - per mescolare i generi, demolire il concetto stesso di narrazione tradizionale, fino a premere sui pedali del gore per trascinare gli spettatori in un vortice di orrore e di violenza (senza svelare ulteriori dettagli sull'epilogo del film). Dunque la parabola professionale di Jesse, che ha la bellezza diafana e candidamente 'innocente' della giovanissima Elle Fanning, non fa altro che disegnare la traiettoria di una progressiva "discesa nell'abisso": un abisso la cui oscurità è squarciata dalle luci lisergiche e dai colori artificiali di una Los Angeles, la città del sogno e dell'incubo, che è privata via via di ogni barlume di naturalismo.
E proprio in questo aspetto, vale a dire nella tendenza sempre più accentuata a inoltrarsi nei territori della metafisica e del simbolismo, si può individuare la direzione dell'itinerario di Nicolas Winding Refn: un itinerario in cui la perfezione formale ci porta sempre più lontani dalla grezza materialità dei primi lavori del regista. Difficile, d'altronde, rintracciare nella maniacale cura estetica di The Neon Demon la medesima impronta di quel regista che nel 1996, a soli venticinque anni, esordiva dietro la macchina da presa con l'action movie Pusher, con Mads Mikkelsen, primo capitolo di una trilogia sul traffico di droga e il lurido sottobosco della malavita danese. Gli influssi tarantiniani, lo 'sporco' realismo delle strade e dei bassifondi, la brutalità delle vicende descritte, lo stile nervoso e frenetico: i tratti distintivi di un cinema artigianale, saldamente ancorato all'ambiente sociale, alla materia, alla 'terra', volendolo identificare con uno dei quattro elementi naturali.
Un analogo senso di concretezza - dei corpi, innanzitutto, ma anche dei luoghi - si sarebbe ritrovato poi nel 2008 in Bronson, allucinato ritratto del famigerato galeotto britannico Charles Bronson (un impressionante Tom Hardy), la cui maggiore cura formale avrebbe caratterizzato, un anno più tardi e in maniera ancora più evidente, il successivo Valhalla Rising, cronaca storica sul mito dei vichinghi: un film, quest'ultimo, dove il realismo veniva contagiato dal surrealismo, e in cui già si intravedevano gli indizi dell'evoluzione di Refn verso un cinema ben diverso e sicuramente più sofisticato. Un cinema pronto a staccarsi dalla 'terra' e a spiccare il volo, a trasformarsi e ad assumere nuove forme, in un costante processo di metamorfosi di cui The Neon Demon costituisce, per ora, un fondamentale punto d'arrivo. Ed è appunto a questa seconda fase della produzione di Refn, corrispondente all'ultimo lustro, che vogliamo rivolgere la nostra attenzione, provando ad analizzare quel misterioso ed irresistibile connubio fra la luce e l'ombra, fra la bellezza e l'orrore...
L'aria: Drive, correndo incontro al destino
Veicoli che sfrecciano nella notte di Los Angeles, auto da corsa, macchine che perdono contatto con il terreno, balzano in aria e si cappottano sull'asfalto... che si tratti di un set cinematografico, dello scenario di una rapina o del ciglio di un precipizio. Se la trilogia di Pusher, Bronson, Valhalla Rising e gli altri film della prima fase della carriera di Refn erano avvinghiati alla materia, ai corpi, alle strade cittadine, agli spazi circoscritti, ai paesaggi naturali, in una parola alla terra, con Drive si assiste a un cambiamento fondamentale: il distacco dal terreno, e quindi - metaforicamente - dal realismo, mediante il ricorso a una velocità che permette di schizzare da un luogo all'altro per abbracciare un nuovo elemento, l'aria. Del resto, cosa fa il pilota senza nome interpretato da Ryan Gosling se non questo? Rifiutare il "qui ed ora" per inseguire un "altrove" forse soltanto vagheggiato... un altrove che il nostro solitario driver crede di riconoscere nello sguardo dolce e fragile della vicina Irene (Carey Mulligan) e del figlioletto Benicio (Kaden Leos).
Nel 2011 Drive viene proiettato in concorso al Festival di Cannes, raccogliendo un raro entusiasmo: per Nicolas Winding Refn, il cui nome fino ad allora era rimasto confinato ad una ristrettissima cerchia di cinefili, è il primo vero "balzo verso il cielo", coronato dal premio per la miglior regia, da un consenso pressoché unanime e da un clamoroso successo al botteghino, tali da rendere Drive un instant classic. Ma a conquistare critica e pubblico non è solo l'aura di struggente romanticismo della storia d'amore fra il protagonista e Irene, né tantomeno l'intreccio gravido di tensione di un moderno neo-noir, ma anche e soprattutto l'atmosfera particolarissima costruita da Refn attorno a un racconto abbastanza asciutto: dalla fotogrofia notturna di Newton Thomas Sigel alle sonorità elettroniche tipicamente anni Ottanta della soundtrack di Cliff Martinez, richiamate anche da brani come il pezzo electro-house Nightcall e la sognante ballata A Real Hero. E forse non è un caso neppure che la scena più famosa del film, dal valore ormai quasi iconico, sia ambientata in aria, nel "non spazio" di un ascensore. Refn rallenta il tempo, fin quasi a fermarlo, agisce sulla realtà manipolandola secondo la prospettiva e l'emotività dei personaggi (il gesto di Ryan Gosling, quel braccio proteso per proteggere Irene), fino a fondere la tenerezza di un bacio rubato, e prolungato in una slow motion quasi infinita, con la repentina esplosione di violenza di un avversario abbattuto e di un volto maciullato.
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Il fuoco: Solo Dio perdona, l'inferno di Bangkok
Quando, due anni dopo il trionfo di Drive, Nicolas Winding Refn torna in concorso al Festival di Cannes, la curiosità ovviamente è altissima. Ma Solo Dio perdona, altro cimento con il genere del thriller a sfondo noir e seconda collaborazione con il divo canadese Ryan Gosling, non replica il successo incondizionato dell'opera precedente: metà della critica storce il naso, a Refn arrivano accuse di megalomania e di manierismo e anche il pubblico sembra subire una sorta di effetto respigente, tanto che gli incassi sono appena una frazione di quelli di Drive e negli Stati Uniti il film passa addirittura inosservato. Eppure Solo Dio perdona, almeno per chi scrive, possiede lo stesso potere di fascinazione di Drive, a cui si aggiunge una componente ancora più intensa e perturbante: nel ritratto del microcosmo criminale di Bangkok, fra spaccio di droga e mercato del sesso; nella solennità ieratica di cui sono ammantati i personaggi; nel modo in cui Refn sublima la violenza più feroce attraverso una messa in scena sempre più studiata e geometrica.
Mentre Drive era un film che puntava verso l'aria, l'elemento distintivo di Solo Dio perdona è di certo il fuoco. Il fuoco delle sparatorie, ma ancor prima il fuoco nella sua essenza simbolica di pulsioni incontenibili, di violenza fragorosa e divorante, di anime che ardono in silenzio. C'è un fuoco che divampa nello sguardo di ghiaccio di Julian (Ryan Gosling), gestore di una palestra utilizzata come copertura per attività criminali, mentre la stessa Bangkok è dipinta come un girone dell'inferno: una "città dolente" sprofondata in una notte perenne, in cui la fotografia di Larry Smith lacera le tenebre con bagliori vermigli, con immagini virate verso il rosso o verso il giallo, in un costante richiamo cromatico alle fiamme. E se Drive era connotato da un fosco romanticismo, Solo Dio perdona è invece un film molto più rarefatto, in cui ogni inquadratura risponde a un rigore maniacale, in cui ogni sfumatura e ogni dettaglio servono a trasmettere una suggestione, piuttosto che a sviluppare una storia. Questo cupissimo revenge movie, in cui un "angelo della vendetta" (Vithaya Pansringarm) e Crystal (una Kristin Scott Thomas magnificamente kitsch), la spietata madre di Julian, si contendono l'anima del ragazzo, ci offre una straordinaria testimonianza del talento visionario di Refn.
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L'acqua: The Neon Demon, l'oscuro oggetto del desiderio
Se Drive segna il passaggio dalla concretezza materica e 'terrena' dei film precedenti al momento in cui lo stile di Refn si libra definitivamente verso l'alto, verso l'aria, e se Solo Dio perdona, dietro la fredda compostezza dell'immagine, sprigiona un fuoco di passioni distruttive, a The Neon Demon va associato invece l'elemento dell'acqua. Perché The Neon Demon, opera se possibile ancora più gelida e controllata della precedente, è senza dubbio un film fluido, liquido, in incessante trasformazione e in perenne divenire. Un film in cui è l'immagine stessa, ovvero l'elemento di base della semiotica cinematografica, a sciogliersi, a liquefarsi; in cui perfino il corpo umano, quell'oggetto che in Bronson riempiva lo schermo grazie alla prorompente fisicità di Tom Hardy, diventa un simulacro di perfezione da trattare con ossequiosa reverenza. Oppure una tela su cui dipingere: nell'incipit della pellicola, il corpo dell'aspirante modella Jesse è ricoperto da un liquido color rosso sangue dal fotografo Dean (Karl Glusman); in seguito un altro fotografo, Jack (Desmond Harrington), farà spogliare la ragazza per poi cospargerle il busto e il collo di una patina dorata, come un idolo pagano.
Analogamente, The Neon Demon è un film inafferrabile, che cambia forma davanti ai nostri occhi: satira al vetriolo sul mondo della moda, incubo allucinato sullo spettro del successo, thriller psicologico, horror paranormale... la pellicola di Refn sfugge alle definizioni, così come si sottrae alle convenzioni drammaturgiche. Il principale rimprovero mosso al regista danese, in quest'occasione, risiede nell'intrinseca fragilità di una trama che si confronta in modo apparentemente superficiale con i temi al cuore del film, in primis quell'ossessione per la bellezza da cui scaturisce una forza oscura e (appunto) demoniaca. Accuse comprensibili, ma allo stesso tempo è bene ricordare che in The Neon Demon è impossibile scindere la confezione dal contenuto: è nella sua dimensione fortemente ipnotica, nella stilizzazione psicologica e formale, nell'estetizzazione esasperata che si fa celebrazione del puro artificio, che va ricercato il valore - e, magari, il significato - di un film tanto ambiguo quanto intrigante, se solo si è disposti ad accettare il gioco di Refn e a seguirne le regole.
Ed è allora, nel connubio fra una bellezza che si manifesta come epifania e delirio mistico ed un orrore nascosto, indefinito, eppure in procinto di affiorare al calare della notte (la sagoma di una pantera nella camera di Jesse; la sequenza onirica dell'aggressione; le urla ovattate provenienti dalla stanza accanto), che The Neon Demon sfocia nell'assoluta meraviglia - in senso etimologico: ciò che è degno di essere ammirato, e che quindi ci impone di "mirare", di guardare. Perché il film di Refn, non dimentichiamolo, è prevalentemente un film sullo sguardo: uno sguardo - già da quello iniziale del fotografo Dean - che si fa contemplazione estatica; uno sguardo che vorrebbe 'catturare' l'immagine, imprigionarla dentro un meccanismo familiare (la sagoma di Jesse racchiusa in un triangolo); uno sguardo vampiristico, che di quella bellezza tenta di carpire i segreti, di possederla, di fagocitarla addirittura. Ma lo sguardo, valvola di sfogo delle pulsioni umane, veicolo basilare dell'eros, canale inesorabile di ogni forma di desiderio, è anche una delle fonti primarie dell'orrore. E il cinema, ancora una volta, interviene a ricordarcelo... con un finale di grottesca, ributtante ironia.
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