Con l'uscita di Jupiter - Il Destino dell'Universo, nuova e ambiziosa space opera che vede una Mila Kunis eroina (letteralmente) di due mondi, torna prepotentemente alla ribalta il cinema dei fratelli Andy e Lana Wachowski. Una presenza, quella dei due discussi cineasti, numericamente piuttosto parca nel panorama cinematografico dell'ultimo ventennio: sette film diretti in tutto, altri due sceneggiati, più un pugno di produzioni fumettistiche e videoludiche a fare da contorno; con un peso preponderante di quel Matrix (inteso sia come film che come trilogia) che ha rappresentato croce e delizia per gli appassionati di science fiction, cinematografica e non, di questo inizio millennio. Eppure, siamo qui di fronte a un cinema il cui peso specifico, sull'evoluzione del linguaggio cinematografico degli ultimi decenni, si è rivelato ben superiore alla consistenza della proposta dei due cineasti, superiore forse persino alle loro stesse intenzioni.
Per furbo, ruffiano e sopravvalutato che sia stato, il primo Matrix ha infatti segnato, in qualche modo, uno spartiacque nel cinema blockbuster statunitense dell'ultimo ventennio; mescolando abilmente influenze e suggestioni, avvicinando immaginari apparentemente lontani, riuscendo in modo sottile e scaltro a dare una nuova veste (e a far apparire fresco e originale) ciò che in realtà non era che la rielaborazione di generi e topoi ampiamente codificati. Un'operazione che, per la sua sottigliezza e consapevolezza, sicuramente non era da tutti, il cui valore è stato paradossalmente confermato dal fallimento dei due sequel: quasi a ribadire che raccontare una storia, mettendo insieme frammenti di visioni, è un conto, mentre costruire da questa un universo è tutt'altra questione. Più complessa, e dall'esito meno scontato.
Dai fumetti a Bound, tra cinefilia e attitudine nerd
I primi passi nel mondo del cinema di Andy e Larry (utilizziamo, per ora, il nome precedente alla cosiddetta "evoluzione") mostrano fin da subito il loro eclettismo, e il loro instancabile carattere di fruitori, prima che creatori, di storie: fossero esse cinematografiche, fumettistiche, televisive o letterarie. Non a caso, i loro compagni alla Whitney Young High School di Chicago se li ricordano, più che come attivi partecipanti ai corsi di arti drammatiche della scuola, soprattutto come accaniti giocatori di Dungeons & Dragons; e non a caso le loro successive, rispettive esperienze universitarie, pur legate allo studio della cinematografia, si sono presto concluse con l'abbandono. Andy e Larry, già da questi anni di formazione, sembrano rifiutare con forza una concezione pedante e libresca della conoscenza: la loro predilezione, evidentemente, è per i territori della scoperta autonoma, eclettica e non preordinata, spaziante in territori diversi e confinanti. E, parallelamente, per il fare, per il dare forma personale e immediata alle visioni: dopo l'abbandono del college, i due gestiscono infatti un'impresa di carpenteria, e nel frattempo scrivono fumetti (nella fattispecie, alcune storie della serie horror Ectokid, creata per la Marvel da Clive Barker).
Dopo la sceneggiatura di Assassins di Richard Donner, stravolta dal successivo trattamento di Brian Helgeland (i due cercarono, senza successo, di far eliminare il loro nome dai credits) l'esordio dietro la macchina da presa sarebbe giunto nel 1996: Bound - torbido inganno rientrava nel filone del neo-noir, con un amore lesbico a fungere da mero contorno per una storia di tradimento e omicidio che guardava ad Alfred Hitchcock, Billy Wilder e Roman Polanski. Parte della critica affondò l'esperimento bollandolo come superficiale e gratuitamente pulp, un'altra scomodò paragoni con un'altra coppia di fratelli cineasti, i Coen. Quasi nessuno, però, prefigurava la folgorante prosecuzione della carriera dei due, con un'opera seconda che, nel bene e nel male, avrebbe lasciato il segno.
Il mondo di Neo
L'uscita di Matrix, nel 1999, avrebbe terremotato il mondo della fantascienza cinematografica (genere, all'epoca, un po' in debito d'ossigeno); fagocitando tutte le composite influenze di cui il cinema americano anni '90 si era nutrito, mettendole insieme in un frullatore postmoderno, facendone in qualche modo la summa, e proiettando il tutto (insieme allo spettatore) direttamente in quello che sarebbe stato il cinema del nuovo millennio. Un'opera spartiacque, Matrix, perché il suo modo di citare e rielaborare è spregiudicato quanto esteso, nello spazio e nel tempo, consapevole quanto abilmente mimetizzato dietro una messa in scena accattivante ed elaborata. La fantascienza letteraria di Philip K. Dick e Isaac Asimov, quella cinematografica di Fritz Lang, Ridley Scott e James Cameron, un capolavoro dell'animazione come Ghost in the Shell di Mamoru Oshii, le suggestioni new age e quelle cattoliche, i teoremi matematici e qualche tonnellata di immaginario manga e anime; in più, l'estetica dei kung fu movie trasportata in un universo science fiction, le scene d'azione à la John Woo (coreografate dal maestro del cinema di arti marziali, Yuen Woo-Ping) in un periodo in cui l'action movie di Hong Kong era ancora oggetto di culto per pochi (e un po' folli) cinefili. E poco importa, allora, se i paragoni con Blade Runner e 2001: Odissea nello spazio sono apparsi da subito (a dir poco) fuori luogo, se dietro al rutilante contenitore i più scaltri videro da subito un contenuto piuttosto esile, comunque frutto di stratificazioni, incorporazioni e contaminazioni di immaginari; se il tanto celebrato bullet time era stato in realtà creato addirittura un secolo prima, all'epoca del precinema, negli esperimenti fotografici del pioniere Eadweard Muybridge. L'abilità dei due fratelli cineasti fu proprio nel celare questa operazione cannibalistica, rendendone nel contempo manifesti gli aspetti più superficiali, quelli più direttamente citazionistici, assemblando il tutto con indubbio gusto e senso dell'epos. Il successo fu planetario, i fan club proliferarono, l'annuncio che da quel prototipo sarebbe nata una trilogia fece credere di trovarsi di fronte a un fenomeno analogo a quello di Star Wars. Il tempo, e gli stessi sequel, si sarebbero incaricati di smentire tali previsioni.
Reloaded, Revolutions, e una lunga pausa
Quattro anni dopo l'uscita del primo capitolo, Matrix Reloaded e Matrix Revolutions nascevano sotto il segno di una forte pressione. Malgrado i Wachowski abbiano dichiarato (ma solo in seguito) che la loro opera nasceva già come una trilogia, e malgrado nel frattempo i due avessero fondato una loro casa di produzione (la EON Entertainment) tale da consentir loro un più stretto controllo sul processo creativo, l'hype verso la prosecuzione della saga si faceva sentire forte, a vari livelli. La moda dei franchise, di opere concepite già dall'inizio in differenti installments (di cui la trilogia de Il signore degli anelli e il dittico Kill Bill erano le più recenti espressioni) stava raggiungendo in quegli anni nuove dimensioni; il pubblico era ormai abituato ad aspettare un anno (o giù di lì) per tornare al cinema ed assistere alla prosecuzione di una storia. I due sequel di Matrix, quindi (arrivati in sala a pochi mesi di distanza l'uno dall'altro) erano film attesi quanto temuti, ma soprattutto reputati quasi necessari da fans e appassionati di tutto il mondo.
Il risultato delle due pellicole, artistico e in minor misura commerciale, ha finito probabilmente per risentire di questo carattere di sequel "forzati", scritti forse di fretta, privi di una visione realmente organica dell'universo in cui si andavano ad inserire. Nel loro sfarzo produttivo, i due film (concepiti quasi come primo e secondo tempo di un'unica pellicola) finirono per confondere e annoiare, affastellando rutilanti sequenze d'azione e suggestioni new age d'accatto, mancando della visione d'insieme, e della felice sintesi, che avevano caratterizzato il prototipo. Gli stessi risultati al box office, specie quelli del capitolo conclusivo (che avrebbe totalizzato circa la metà degli incassi del precedente) finirono per risentirne, mentre gli appassionati si divisero: ma il senso di una conclusione inadeguata era ben vivo, e a poco servì l'esperimento (comunque apprezzato) della serie animata direct-to-video Animatrix.
Malgrado i risultati commerciali di Reloaded e Revolutions, nel complesso, non fossero certo stati disastrosi, sarebbero passati cinque anni prima che Andy e Larry tornassero dietro la macchina da presa: nel frattempo, ci sarebbe stata la sceneggiatura di V per Vendetta (comic movie tratto da Alan Moore, e diretto dal collaboratore dei due fratelli James McTeigue) e la collaborazione non accreditata al fallimentare Invasion, di Oliver Hirschbiegel (di cui i Wachowski riscrissero parte dello script).
Ricomincio da un anime
Gli anni di "silenzio" (cinematografico) dei due fratelli, sono anche quelli in cui iniziano ad affastellarsi le voci su un imminente cambio di sesso di Larry, alimentate dalle sporadiche apparizioni del cineasta vestito da donna. A poco sarebbero servite, in tal senso, le smentite del produttore e collaboratore storico Joel Silver, con una macchina del gossip che, aiutata dall'eclisse pubblica dei due registi, aveva iniziato a lavorare a pieno ritmo. Il nuovo Speed Racer, ritorno annunciato alla regia dei due fratelli (datato 2008) giungeva così in sala con un alone di mistero e di curiosità (un po' morbosa) sulla persona di Larry, alone che avrebbe finito per distogliere, in gran parte, l'attenzione dal film.
Speed Racer, ispirato a un noto anime degli anni '60 (in Italia l'abbiamo conosciuto come Superauto Mach 5) fu un fiasco critico e commerciale con pochi precedenti nel cinema mainstream di quegli anni, che portò lo stesso Joel Silver a interrompere la collaborazione coi due registi. Malgrado l'insuccesso commerciale, e una nomination ai Razzie, il film con Emile Hirsch sarebbe stato successivo oggetto di rivalutazione, acquisendo lo status di cult. Guardandolo, in effetti, si fa fatica a cogliere le ragioni di un simile insuccesso; spiegabile solo con un'estetica pop abbracciata in modo tanto radicale, e senza compromessi, da risultare forse indigesta alla maggior parte del grande pubblico occidentale. Il film risulta infatti imbevuto, da cima a fondo, di un mood fumettistico, con una preponderanza di fondali in green screen, un universo surreale e smaccatamente cartoonesco, divagazioni comiche chiaramente debitrici a manga e anime di quegli anni (più ancora che all'opera ispiratrice).
Malgrado la lunghezza eccessiva, Speed Racer spicca oggi come momento importante (e tuttora sottovalutato) nella carriera dei Wachowski: quello di una parentesi più fresca e creativamente spontanea, giustamente ludica (ma non per questo priva di spessore) dopo la roboante pretenziosità dei due sequel di Matrix. Pochi apprezzarono, ma l'impressione è che Andy e Larry (che forse, in quell'epoca, pensava già a se stesso come Lana) si siano divertiti un mondo nel realizzarlo.
Mutazioni (personali e cinematografiche) e il ritorno alla sci-fi
Il lancio del successivo Cloud Atlas sarebbe arrivato insieme al completamento dell'"evoluzione" (così l'ha definita lei stessa) di Larry/Lana; e quindi alla definitiva caduta di quell'alone di mistero (che già, comunque, aveva lasciato il posto a qualcosa di simile a una certezza) che circondava la sua persona. Contrariamente a quanto era accaduto col film precedente, il mistero, nel caso del nuovo film, era concentrato sull'opera, più che su chi c'era dietro la macchina da presa: foto centellinate, poche interviste rilasciate, primo trailer mostrato a pochi mesi dall'uscita. Unico indizio sul film: un romanzo ispiratore (L'atlante delle nuvole, di David Mitchell) tanto complesso e affascinante, quanto apparentemente poco adatto a essere reso per immagini. A coadiuvare i due fratelli alla regia, un cineasta europeo dalla carriera interessante ed eclettica, il tedesco Tom Tykwer: regista che si era affermato quasi contemporaneamente ai due fratelli, col suo Lola corre datato 1998.
La prima proiezione di Cloud Atlas, in anteprima mondiale al Toronto International Film Festival, fu un vero e proprio trionfo: 10 minuti di applausi e ottime recensioni, per un'opera che da subito è sembrata la più adatta per rilanciare la carriera dei Wachowski. Il film, con una galleria di star tra cui Tom Hanks, Halle Berry e Jim Sturgess, a interpretare ognuno più di un ruolo, è un affascinante e ambizioso viaggio tra epoche e generi cinematografici, che giustappone immaginari tra loro lontanissimi (quello della fantascienza, del noir, del peplum e del dramma in costume) riuscendo, in modo quasi miracoloso, a mantenere equilibrio e compattezza. La notevole lunghezza (164 minuti) non inficia i risultati di un film in cui si respira una grande libertà creativa; un risultato che tuttavia non avrebbe ancora garantito ai due fratelli l'atteso rilancio al botteghino. Gli incassi, pur superiori a quelli di Speed Racer, evidenziarono infatti una reazione tiepida da parte del pubblico, specie di quello statunitense. Ciò non avrebbe, tuttavia, impedito ad Andy e Lana di perseguire un nuovo, ambizioso progetto, stavolta (per la prima volta dopo la saga di Matrix) interamente originale.
Jupiter, Sense8, e i progetti futuri
Su Jupiter - Il destino dell'universo (che segna, tra l'altro, l'esordio dei Wachowski nel cinema stereoscopico) i dettagli elargiti prima dell'uscita del film sono stati decisamente superiori a quelli che i due cineasti lasciarono trapelare ai tempi di Cloud Atlas: una space opera venata di fantasy, dalla produzione sontuosa, con Mila Kunis e Channing Tatum a formare una nuova coppia d'azione destinata a prendere in mano i destini dell'universo. In questa nuova opera, i riferimenti (visivi e tematici) alla saga di Matrix sono tutt'altro che occasionali: la protagonista è di nuovo una predestinata sui generis, la vita come la conosciamo è di nuovo frutto di un'intelligenza altra, che l'ha progettata e creata per i suoi scopi. Malgrado tali affinità, la "scelta di campo" che i due registi fanno, stavolta, sembra decisamente più orientata verso un immaginario sci-fi dal carattere epico; più classico e leggibile, nonché meno composito nei suoi riferimenti, rispetto alla maggior parte delle opere passate. Tuttavia, pur nel gusto maggiormente mainstream e meno contaminato che lo caratterizza, Jupiter resta ricco di citazioni e strizzate d'occhio a classici più o meno moderni: dall'onnipresente saga di Star Wars al primo Terminator, dalla fantascienza venata di politica di Dune all'immaginario del cinema di Terry Gilliam (omaggiato in un significativo cameo).
Nel frattempo, e coerentemente con la loro natura di artisti "multimediali", Andy e Lana si preparano ad affrontare (anche) la nuova serialità da piccolo schermo: sono ormai state ultimate le riprese della nuovissima serie fantascientifica da loro ideata, intitolata Sense8 e prodotta da Netflix. Un progetto che i due fratelli hanno sviluppato insieme al collaboratore J. Michael Straczynski, e che dovrebbe articolarsi (stando alle intenzioni dello stesso Straczynski) in cinque stagioni: per una storia che sarà incentrata su otto personaggi, sul misterioso quanto potente legame che li unisce, e su una varietà di temi quali la sessualità e l'identità di genere.
Unitamente a ciò, i tanti progetti che i due fratelli hanno ancora nel cassetto (dalla già adocchiata versione moderna di Robin Hood, intitolata Hood, all'ipotetica love story bellica, ambientata in Iraq, di CN-9) fanno pensare che il loro ruolo, nell'audiovisivo dei prossimi anni, sarà destinato a restare ancora (a prescindere dai risultati delle loro nuove fatiche) tutt'altro che secondario.