Personaggio schivo di fronte ai media, Hayao Miyazaki è ormai considerato un genio dell'animazione mondiale, consacrato prima dall'Orso d'Oro al Festival di Berlino 2002 e poi dall'Oscar 2003per La città incantata. Da Principessa Mononoke (1997), prima opera del regista, sceneggiatore e disegnatore giapponese a essere distribuita in Italia - anche per merito dell'accordo firmato tra la Disney e la Kokuma Shoten (una delle più grandi case di produzione e distribuzione nipponiche) - il pubblico del nostro paese si è progressivamente avvicinato al talento visivo e narrativo di Miyazaki, facendo la fila per ammirare Il castello errante di Howl sia alla 61esima edizione del Festival di Venezia sia al Future Festival 2005 di Bologna, del quale il film era uno degli eventi di punta.
Il Leone d'oro alla carriera assegnato il 9 settembre da Marco Mueller, direttore della 62esima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica, al sessantaquattrenne autore di film come Il castello di Cagliostro e Nausicaaa della valle del vento rappresenta, quindi, il giusto riconoscimento al contributo che Hayao Miyazaki ha dato non solo all'animazione (Heidi, Conan, Sherlock Holmes e Lupin III sono tutti personaggi mitici dell'universo dei cartoni animati alla cui lavorazione Miyazaki ha partecipato), ma a tutto il cinema, grazie soprattutto alla fondazione dello Studio Ghibli nel 1985: una vera e propria officina della fantasia visionaria dove, con l'imprescindibile collaborazione dell'amico e regista Isao Takahata, prendono corpo lungometraggi di animazione dotati di una complessità estetica e tematica tale da incantare un pubblico sempre più vasto e trasversale.
Il castello errante di Howl non sfugge di certo a questa tradizione, in quanto opera vibrante e cromaticamente densa, traboccante di immaginazione e strutturata su più livelli di significato, attenta a delineare fattezze e psicologie non solo dei protagonisti, Sophie(che si inserisce perfettamente nella galleria di eroine di Myazaki al pari di Laputa, Nausicaa, Mononoke e Chihirode La città incantata) e il bellissimo e sfuggente stregone Howl, ma anche dei personaggi di secondo piano, per non parlare dei paesaggi e delle ambientazioni, che rievocano gli scenari europei di fine Ottocento tipici del genere steampunk, del quale Steamboy è una felice esemplificazione.
Della storia della diciottenne cappellaia Sophie, che viene trasformata dalla Strega delle lande deserte in un'attempata e dolce vecchietta, colpisce soprattutto l'attenzione che il regista nipponico pone - ancora una volta - alla circolarità del tempo e all'esistenza in continuo divenire, in incessante mutamento, raccontando - senza didatticismi e giudizi precostituiti - le fasi della maturazione personale dei suoi personaggi, con uno sguardo lucido ma al tempo stesso poetico e delicato. Ne Il castello errante di Howl predomina una concezione del tempo che, secondo Anna Antonimi (nel suo volume dedicato al regista, L'incanto del mondo, edizioni Il principe costante), «coincide con quello del rito, del mito e della fiaba: circolare e sincronico, non lineare e diacronico».
Miyazaki ci propone, infatti, un universo multiforme, nel quale l'apparenza cela il reale significato delle cose, così come il vero volto dei personaggi e delle motivazioni che determinano le loro azioni. Perché il mondo animato dall'autore nipponico è sì pervaso dalla magia - il piccolo apprendista Markl è in grado di trasformarsi, uno spaventapasseri (Rapa) è capace di muoversi e il demone del fuoco Calcifer è l'anima e il cuore del castello, a sua volta artefatto semimovente carico di connotazioni sentimentali, fantastiche e oniriche - ma anche da emozioni e condizioni prettamente umane (la guerra che imperversa violenta, la sete di potere, la fragilità).
Ispirato dall'omonimo libro per bambini della scrittrice inglese Diana Wynne Jones, Il castello errante di Howl rappresenta una profonda e coinvolgente commistione filmica definita dall'inter-culturalità, e alimentata dalla fusione affascinante e simbiotica tra il repertorio letterario e visivo occidentale con le radici e le sensibilità orientali. Quella di Miyazaki è una realtà non regolata e sostenuta da dicotomie laceranti, ma votata alla coesistenza tra opposti e all'accettazione di più punti di vista; tracciare una netta linea di confine tra il mondo umano e quello magico diventa così un'operazione impossibile e scorretta, proprio in virtù delle correnti shintoiste che attraversano la cultura giapponese, secondo le quali ogni essere vivente, ogni manifestazione della natura, può nascondere dei kami, ossia spiriti che non attendono altro che di essere figurativizzati dalla mano superba di Hayao Miyazaki.