Versi danteschi in lingua sicula. Il cacciatore si apre così, nel mezzo del cammin di Saverio Barone, avvocato prima e magistrato poi, addentrato in un'Italia infernale. Omicidi, attentati, esplosioni e quei due nomi marchiati a fuoco sulla pelle di una nazione piena di paura: Falcone e Borsellino. È il 1993 quando la serie RAI dà inizio al suo racconto ritmato e incessante, dedicato ad uomo intenzionato a punire la malavita, a smascherare la giustizia collusa e, perché no, anche a fare anche carriera. Composta da dodici episodi e tratta dal romanzo Il cacciatore di mafiosi del magistrato Alfonso Sabella (edito da Mondadori), Il cacciatore è stata presentata nel concorso Canneseries, mostrando un approccio narrativo brillante e per niente in linea con lo stereotipo negativo che incombe su molte produzioni televisive italiane. Grazie ad un taglio pop e ad una grande cura formale nel regia e nel montaggio, Il cacciatore è mossa dal desiderio sincero di ribaltare il modo nostrano di rappresentare la malavita. E, forse, non è un caso che ad interpretare il lato giusto (ma mai mitizzato) di questa estenuante lotta alla mafia sia proprio Francesco Montanari, da molti ricordato soprattutto come Il Libanese di Romanzo criminale - La serie.
Pare sia giunta l'ora di ribaltare certi preconcetti, pare sia giunto il tempo di tifare per il bene (più che per i buoni), trasformando i criminali in prede, svestendoli di ogni fascino malsano. A confermarlo sono proprio Alfonso Sabella, Francesco Montanari, Miriam Dalmazio e i due registi Stefano Lodovichi e Davide Marengo, protagonisti di una conferenza stampa piena di orgoglio e di passione. Una passione orgogliosa che sembra sanare, anche solo per un attimo, una ferita mai davvero rimarginata sulla pelle del nostro Paese.
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La forza dello Stato
Piove a dirotto su Cannes. La giornata è grigia e un po' sonnacchiosa, tipica delle ultime giornate dei festival. Poi arriva la veemenza del magistrato Sabella, letteralmente infervorato dal lavoro svolto dalla RAI con Il cacciatore. Una serie basata sul suo apprezzato libro dal taglio molto personale, nato da un'esigenza viscerale: "Quello che ho scritto dieci anni fa non è un romanzo ma un libro autobiografico. Qualcosa scaturito da un mio grande desiderio. Purtroppo per anni la mafia è stata dipinta come una forza inscalfibile, rimanendo impressa nell'immaginario collettivo come qualcosa di invincibile. Con questo libro e con questa serie vogliamo raccontare un successo dello Stato italiano, raccontare come, dopo stragi e orrori di ogni tipo, la nostra giustizia sia stata capace di rialzare la testa, dando la caccia ai latitanti. È vero che l'Italia è stato sempre sinonimo di mafia, ma è anche vero che nel corso degli anni abbiamo sviluppato anche degli anticorpi per combatterla ed estirparla. Per cui abbiamo comunicato al resto del mondo anche un concetto vincente di antimafia. Ecco, il libro vuole narrare un momento di vittoria del nostro stato in un momento di estrema difficoltà.
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Per molto tempo il cinema stesso ha creato una percezione distorta del mafioso, rappresentato come un uomo d'onore, dotato di un'etica e persino protagonista di storie epiche. Penso soprattutto a Il padrino. Non è così. I mafiosi sono solo spregevoli criminali senza alcun rispetto per la vita umana". Concepita come un lungo film suddiviso in episodi, Il cacciatore, con la sua prima stagione, arriva a coprire soltanto un quarto del romanzo di Sabella, e lo fa attraverso un protagonista che è solo ispirato al magistrato siciliano: "Saverio Barone non sono io. Certo, ci sono molti aspetti simili, ma lui forse è un po' più stronzo di me. Però la serie è stata abile a carpire il chiaroscuro che è dentro ognuno di noi. Anche io avevo ambizioni e debolezze, ero fallibile e pieno di contrasti. Nonostante ci siano degli elementi romanzati, posso assicurarvi che Il cacciatore si avvicina molto alla verità, raccontando con coraggio tantissimi orrori. Per questo sono grato alla RAI che ha avuto l'audacia di mandare in onda in prima serata una serie per niente edulcorata".
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La rivincita dei giusti
Ritmo, citazioni musicali e un'estetica a tratti fumettistica. Il cacciatore non è la serie RAI a cui siamo stati abituati, perché ha un approccio incalzante, per niente adagiato su ritmi compassati e tempi troppo dilatati. Avendo in mente riferimenti ben precisi come Narcos , Il Divo di Paolo Sorrentino e il cinema di Martin Scorsese e Guy Ritchie, il regista Lodovichi ammette: "Volevamo creare qualcosa di appetibile anche per un pubblico giovane, che risultate fresco e accattivante anche ai loro occhi. Per me non c'è stata soddisfazione più grande di un ragazzo che, su Twitter, mi ha ringraziato dicendomi che da grande vorrà fare il magistrato. Il cacciatore vuole fare proprio questo: ispirare il bene con un cambio di prospettiva fondamentale. Non è la classica storia di vendetta, ma un racconto in cui è il bene che si dà da fare, e sono i mafiosi quelli che scappano, quelli che devono avere paura". Le serie tv hanno superato le dicotomie nette, le opposizioni tra Bene e Male, così anche Il cacciatore ci regala un protagonista grigio, voglioso di giustizia, ma anche affetto da una voglia di protagonismo e da una vanagloria molto evidente. Sul lavoro svolto per dare vita a Barone, Montanari ha detto: "Il personaggio, come detto, è solo ispirato ad Alfonso. Per questo, inizialmente, non ho voluto conoscerlo subito per non esserne troppo influenzato. Ho cercato da solo la mia via, la mia versione di questo uomo così complesso.
Il cacciatore non è un'opera filologica. Così ho fatto ginnastica con il suo carattere per capirlo e assorbirlo, ho imparato a parlare in un siciliano spero credibile con un coach che ringrazio, e solo dopo ho incontrato Alfonso. Devo dire che è stato un incontro bellissimo, di cui ricordo bene soprattutto una frase. Alfonso mi disse che quando parli con un latitante, per convincerlo a collaborare, devi creare una sorta di empatia. Un'empatia per certi versi pericolosa. Per cui non bisogna mai dimenticarsi di ricordarsi chi si ha difronte, perché si crea il rischio di una sindrome di Stoccolma. Il mio passato da Libanese? Beh, io sono un attore e non rimango certo legato ad un ruolo a cui resto grato. Sapete che vi dico: il fatto di essere stato il Libanese in Romanzo criminale rende questo ruolo ancora più importante, come se fosse un necessario contraltare. Credo che Barone sia un duro, ma che anche molto fallibile, e questo lo avvicina molto al pubblico. Anche per me è stato bello sentir dire a tante persone che sarebbe bello diventare un pubblico ministero. Credo sia una grande vittoria per noi". Eccola l'Italia dei giusti e dei cacciatori. Con buona pace dei miti gomorriani.