La caccia non è finita. Anzi, è appena iniziata. Il cacciatore 2, la seconda stagione della serie liberamente ispirata alla vera storia del magistrato Alfonso Sabella, raccontata nel libro Cacciatore di mafiosi, la cui prima annata è stata premiata due anni fa al prestigioso festival Canneseries, è arrivata su Rai2, per quattro prime serate, da mercoledì 19 febbraio. Francesco Montanari, diretto da Davide Marengo, ritorna nei panni di Saverio Barone, il magistrato che, nella finzione, è ispirato a Sabella. La caccia è appena iniziata: catturato Leoluca Bagarella, nella prima stagione, ora l'obiettivo è Giovanni Brusca, diventato il grande capo di Cosa Nostra. Brusca è anche colui che tiene sotto chiave il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santino Di Matteo, sequestrato quando aveva 12 anni. Si parla di Mafia, ma Il cacciatore non è una delle tante fiction che abbiamo visto negli ultimi anni. È invece in linea con la serialità contemporanea di livello internazionale. È proprio Francesco Montanari a spiegarci la differenza tra fiction e serie. "La fiction è stereotipo, la serie è archetipo" spiega. "Nella serie c'è un'esperienza umana, delle persone fallibili, per cui proviamo empatia. Secondo me questa è la forza delle serie".
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Francesco Montanari: Saverio Barone è una scheggia impazzita
E il Saverio Barone di Francesco Montanari è sicuramente fallibile. È una persona che sbaglia, una persona con dei difetti, dei lati oscuri. Nella seconda stagione de Il Cacciatore lo vedremo cambiato, diverso. "Questa è una stagione profondamente dolorosa" racconta. "Barone fa i conti il suo più grande fallimento, la promessa non mantenuta di riportare a casa il piccolo Di Matteo. Saverio Barone impazzisce, entra nell'inferno, feroce, sanguinolento, della vendetta assoluta. Chi ne fa le spese sono le persone più vicine, la moglie e l'amico Mazza". "È una scheggia impazzita, vuole fare terra bruciata. E brucerà il bosco. Mette a repentaglio anche le indagini. È un processo di solitudine che lo porterà verso il finale. Ci sono stati tanti fallimenti nella caccia ai Brusca. Arrestarli non è stato facile". È proprio per questo suo carattere che il Saverio Barone di Francesco Montanari è un personaggio così riuscito. Ma quanto c'è del vero Sabella nel suo personaggio? "Non facciamo biopic" risponde Montanari. "Non è la storia di Sabella, ma una serie ispirata al libro Cacciatore di mafiosi. C'è molta finzione: io sono Barone e sono molto più stronzo di Sabella. Per me la sceneggiatura diventa la Bibbia. La linea emotiva da seguire era quella della sua voglia di autoaffermazione, qualcosa che abbiamo tutti, e ho lavorato su questo". "Nella seconda stagione viene fuori il narcisismo, l'egocentrismo, la megalomania di Barone" continua. "Mi scontro col fallimento, non mi basta più questa voglia di vincere".
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Alfonso Sabella: Ho gli incubi per non aver salvato Giuseppe Di Matteo
Quanto Saverio Barone somigli al vero Alfonso Sabella ce lo può dire Sabella stesso, presente alla conferenza stampa di lancio a Roma la settimana scorsa. "Il Saverio Barone della prima stagione era spocchioso, con una grande voglia di emergere: come sono adesso, ma non come ero all'epoca" scherza Sabella. "La seconda stagione è uno spartiacque" continua, facendosi più serio. "Racconta il fallimento di quella maledetta notte tra l'11 e il 12 gennaio 1996, che ancora oggi fa parte dei miei incubi: il fatto di non aver salvato la vita a Giuseppe Di Matteo. Ho la consapevolezza, a livello razionale, di aver fatto di tutto per riconsegnare quel bambino alla mamma, ma non ci siamo riusciti. Abbiamo fatto irruzione in un covo di Brusca il giorno dopo che il piccolo era stato ucciso. E allora penso che se fossimo intervenuti prima forse lo avremmo salvato, il bambino. In realtà Brusca aveva dato ordine, in caso di sua cattura, di ucciderlo immediatamente". Ma, oltre al carattere, c'è un aspetto di Sabella che ha fatto sì che fosse un magistrato anomalo (e perfetto per trasformare la sua vicenda in una serie crime). "Ero molto presente sul territorio con le forze di polizia" racconta. "Mi dissero: il magistrato si fa in procura, non nelle caserme. Ma io l'ho fatto e i risultati sono arrivati: voleva dire lavorare a stretto contatto con la polizia giudiziaria, avere il polso della situazione, lavorare in tempo reale".
Alfonso Sabella: Non ho visto uomini d'onore
Ma, al di là di quei fallimenti e di alcune battaglie perse quella raccontata non è assolutamente una stagione di sconfitta, ed è emozionante sentirne parlare Sabella, uno dei protagonisti. "Questa storia racconta una stagione si successi del nostro paese" rivendica orgoglioso. "Ricordo l'espressione di Nino Caponnetto, su Rai3, in Via D'Amelio, in cui disse: è finito tutto. O quella di Carlo Azeglio Ciampi in Piazza della Signoria in occasione dell'attentato alla Galleria degli Uffizi. Abbiamo raccontato la storia fino a quel momento, ma la parte in cui lo Stato ha dimostrato di farcela, di sconfiggere la Mafia, abbiamo preso tutti i loro arsenali, i loro beni. Da forza criminale più grande del mondo l'abbiamo ridotta a terza forza italiana. Non ricordare questi successi è qualcosa di sbagliato. Quando lo Stato ha voluto vincere la battaglia l'ha vinta". "Se la tecnologia e questi strumenti prima di noi li avessero avuti Falcone e Borsellino forse a quest'ora a questo tavolo ci sarebbero loro. E avremmo avuto la storia di un Paese diverso". Il libro di Sabella, scritto molti anni dopo quei fatti, voleva ristabilire le distanze, chiarire chi erano i buoni e chi i cattivi. "Volevo provare a cancellare quell'immagine patinata della Mafia vista al cinema" ci confessa Sabella. "Non ho niente da ridire su prodotti come Il padrino, ma la Mafia che racconta non è quella che ho incontrato io. Io non ho visto uomini d'onore. ma gente che si muoveva solo per il potere e per il denaro, che ammazzava donne, giovani e bambini. Mi sono confrontato con delle bestie. Non riuscivo ad avere un dialogo con Buscetta: mi raccontava una mafia epica e quasi etica. Ma la Mafia non era così".