I tempi d'oro sono finiti?
Due anni dopo la sua presentazione al Festival di Cannes (la Germania, con questo film, tornava allora in competizione dopo undici anni di assenza), arriva anche in Italia The Edukators, il racconto di tre giovani ribelli berlinesi in rivolta contro la borghesia egoista, tre notturni rivoluzionari del nuovo millennio decisi a dare una lezione ad un gruppo di cinici capitalisti ("colpirne uno per educarne cento") per avvertirli che l'abbondanza sta per finire ed è ora di saldare il conto con chi è stato sfruttato. Il loro monito è pura arte metropolitana che gioca e si fa beffe delle contraddizioni dell'ipermodernità. Gli educatori penetrano al buio nelle case altrui (violando con facilità quell'illusione di sicurezza su cui si fonda la nostra epoca) per creare uno choc, che conduca i ricchi senz'anima alla riflessione, attraverso una diversa ed originale collocazione degli oggetti di cui questi si circondano: statue impiccate, interi plotoni di soldatini di porcellana immersi nel water, stereo dorati lasciati muti nel frigo, montagne di sedie e trofei accatastati al centro del salotto, e come firma un enigma per principi principianti, lasciato a dialogare con la coscienza per scuoterla: "i tempi d'oro sono finiti".
I protagonisti del film hanno le facce pulite di tre giovani certezze del cinema tedesco, Daniel Bruhl (l'Alex di Good bye, Lenin!), Julia Jentsch (Orso d'argento a Berlino 2005 per la sua interpretazione ne La Rosa Bianca - Sophie Scholl) e Stipe Erceg, e più che etici vendicatori (dei bambini sfruttati, di chi non arriva alla fine del mese, di chi si rovina inseguendo modelli deformi) sembrano gli ennesimi "giovani, carini e disoccupati" che non sanno bene come riempire il proprio tempo e giocano a fare la rivoluzione, mentre il tempo filmico viene sovraccaricato di dialoghi ridondanti e stereotipati, dal tono fastidiosamente predicatorio. In effetti le loro considerazioni sul mondo alla deriva sono per lo più condivisibili, ma appaiono terribilmente datate, e troppo spesso puerili. Per loro il sogno è destinato a infrangersi troppo presto. Quando una delle loro scorribande notturne va storta, i tre si ritrovano a gestire un sequestro di persona indesiderato, trascinando il malcapitato in un rifugio d'occasione in montagna. Nella purezza incontaminata della natura, dove il valore delle classi sociali perde consistenza e la rabbia lascia spazio al dialogo, possono mettersi allo stesso tavolo col "nemico", mangiare con lui e giocarci a carte, per scoprire che questi, in realtà, non è che un loro padre, uno che ha partecipato ai moti del '68, un rivoluzionario cambiato dal progresso perché, come si dice, "se da giovane non sei di sinistra sei senza cuore, se da vecchio sei ancora di sinistra sei senza cervello". E' la sconfitta degli ideali, di quelli d'allora come quelli di oggi, la presa di coscienza che le ideologie sono tramontate e che il processo di imbruttimento della società è ormai irreversibile.
Lui, la ragazza e l'amico, i tre rivoluzionari della notte: inevitabile il triangolo amoroso, superfluo e derivativo, banale nei suoi meccanismi, nelle sue soluzioni, nella sua messa in scena. All'amico, pieno di principi e belle parole di cui si riempie orgoglioso la bocca, bastano un paio di giorni in solitudine con lei per rubarla all'altro, per intontirle mente e cuore con le sue certezze e i suoi discorsi che vorrebbero risollevarla da quello stato di torpore e di insoddisfazione nel quale è sprofondata dopo che un incidente stradale, proprio con il loro rapito per caso di cui dovranno decidere la sorte, la sta costringendo a lavorare tutta una vita solo per ripagare i danni. Nel frattempo per i nuovi amanti c'è l'ancora di salvezza dei baci, dei momenti di tenerezza consumati tutti tra morbidi sussurri di chitarra, gli unici momenti in cui la regia nevrotica di Hans Weingartner, tutta affannosa nell'inseguire l'ansia metropolitana dei tre ragazzi a Berlino e le scomode rivelazioni in montagna, riesce finalmente a dare respiro a questo boccheggiante ritratto di giovani che sognano di cambiare il mondo, anche se ormai sanno già di aver perduto.