È un disordine sistematico, Dave: non ci capisci niente a guardarlo così... devi guardarlo da una certa distanza.
La frase del sergente Jeff Rabin, pronunciata casualmente in un ironico scambio di battute con l'agente federale Dave Kujan, costituisce la chiave del mistero alla base de I soliti sospetti: l'identità di Keyser Söze, il leggendario criminale che sembra aver tirato le fila del massacro in cui hanno perso la vita ventisette persone. Nel pieno rispetto della tradizione del giallo classico, le parole del sergente Rabin accenderanno infatti una scintilla nella mente di Kujan: da lì a qualche istante, senza bisogno di aggiungere una sola sillaba, l'agente metterà insieme tutte le tessere del mosaico, realizzando di colpo quella verità che aveva avuto davanti agli occhi per tutto il tempo. Solo che, per rendersene conto, era necessario cambiare punto di vista... insomma, guardare da una certa distanza.
È il preludio a uno dei più celebri colpi di scena negli annali del cinema americano: un twist che all'improvviso capovolge la nostra prospettiva sul racconto a cui abbiamo appena assistito, con un virtuosismo degno dei migliori romanzi gialli, ma al contempo con una logica del tutto coerente con la vicenda del film. Ed è pure per merito di questo finale a sorpresa se, nel 1995, I soliti sospetti si è affermato come uno dei più importanti cult del decennio, nonché una delle vette assolute nel campo del neo-noir, un genere che a Hollywood avrebbe conosciuto una particolare fortuna, nelle sue numerose declinazioni, appunto fra gli anni Ottanta e Novanta.
Il primo cult di Bryan Singer (e di Kevin Spacey)
Sebbene abbia visto crescere la propria fama nel corso del tempo, stabilendo un autentico modello nel campo dei thriller con un twist conclusivo (nello stesso anno, fra l'altro, in cui Seven di David Fincher sconvolgerà gli spettatori con un epilogo ancor più scioccante), nella memoria collettiva I soliti sospetti è legato anche a due personaggi che hanno visto le rispettive carriere esplodere grazie a questo film, ma la cui reputazione oggi appare irrimediabilmente danneggiata, tanto da mettere in dubbio un loro possibile ritorno sul set: uno è il produttore e regista Bryan Singer, l'altro il co-protagonista Kevin Spacey. Vent'anni prima degli scandali mediatici e delle accuse di molestie, I soliti sospetti avrebbe consacrato entrambi fra i nuovi, grandi talenti della Hollywood di fine millennio.
Quando inizia le riprese del film, Singer ha ventotto anni e un singolo lungometraggio alle spalle, Public Access, premiato al Sundance nel 1993 ma mai approdato nelle sale. Con non poche difficoltà lui e il suo sceneggiatore, Christopher McQuarrie, riescono a reperire sei milioni di dollari di budget e la partecipazione di attori che accettano di lavorare al minimo sindacale: alcuni sono nomi già piuttosto noti (Gabriel Byrne, Stephen Baldwin, Chazz Palminteri); qualcun altro, come Benicio Del Toro e lo stesso Spacey, lo diventerà da lì a breve. I soliti sospetti viene presentato al Sundance il 25 gennaio 1995, poi passa fuori concorso al Festival di Cannes e il 16 agosto debutta negli Stati Uniti, beneficiando da lì in poi di uno strepitoso passaparola.
I soliti sospetti: il finale che inganna e sorprende lo spettatore
Da I soliti sospetti agli scandali dell'era Weinstein
L'anno seguente, I soliti sospetti riceverà due premi Oscar su due nomination: per la sceneggiatura originale di Christopher McQuarrie e come miglior attore supporter a Kevin Spacey per il ruolo di Roger Kint, soprannominato Verbal per la sua loquacità, al quale è affidato il compito di voce narrante della storia (McQuarrie dichiarerà di aver scritto il personaggio apposta per Spacey). Dopo l'inquietante dramma psicologico L'allievo del 1998, adattamento non troppo fortunato di un racconto di Stephen King, nel 2000 Bryan Singer cambierà completamente genere dirigendo X-Men, capofila di un apprezzato franchise di cinecomic in grado di unire spettacolarità e intrattenimento con toni e tematiche più impegnativi ed 'adulti'.
X-Men è anche il film che segnerà il definitivo passaggio di Singer nel campo dei blockbuster, con progetti via via più imponenti (incluso Superman Returns), ma non sempre così ispirati, né artisticamente ambiziosi (un esempio su tutti, il fantasy Il cacciatore di giganti). Dopo il ritorno alla regia per la saga degli X-Men, nel dicembre 2017 Singer viene licenziato nel bel mezzo delle riprese di Bohemian Rhapsody, concluse da Dexter Fletcher: il biopic su Freddie Mercury si rivelerà un gigantesco fenomeno commerciale e vincerà addirittura quattro Oscar, ma il suo successo coinciderà con il tramonto della carriera di Singer, già in precedenza accusato più volte di abusi sessuali. Una sorte analoga a quella che, qualche mese prima, era piombata su Kevin Spacey sull'onda del caso Weinstein.
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Ma nel 1995, quando il pubblico si lasciava irretire per la prima volta dall'affascinante meccanismo drammaturgico imbastito da Singer e McQuarrie, questo triste finale era ancora lontanissimo. Già dall'inizio, con la sanguinosa nottata al porto di Los Angeles e l'interrogatorio a cui, il giorno seguente, l'agente Kujan di Chazz Palminteri sottopone Kint, I soliti sospetti ripropone diversi elementi canonici del noir: l'analessi come strumento narrativo privilegiato (gran parte del film consiste nel resoconto di Kint); la consapevolezza di una tragica ineluttabilità (fin dal principio sappiamo che quasi tutti i compari sono stati uccisi); la scelta, in qualità di protagonisti, di un manipolo di criminali, vale a dire i cinque "soliti sospetti" radunati sei settimane prima in un commissariato di New York per un confronto all'americana (l'immagine-simbolo della pellicola).
Questa prima parte e l'episodio che innesca la catena di eventi potrebbero appartenere alla trama di un tipico noir metropolitano degli anni Quaranta (e pure il titolo è un richiamo diretto alla battuta di Claude Rains in Casablanca); ma Singer e McQuarrie innestano nella struttura da noir classico una vena pulp propria degli anni Novanta e una rappresentazione esplicita della violenza, che raggiungerà il culmine con l'assalto notturno al porto di Los Angeles. E in questa macrosequenza carica di tensione, la focalizzazione viene spostata di continuo da un personaggio all'altro, favorita da un ampio uso delle soggettive, fino ad evocare la mortifera presenza di Keyser Söze.
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Nel labirinto di Keyser Söze
La figura di Keyser Söze, eletto dall'American Film Institute nella classifica dei migliori villain del cinema, aleggia come un fantasma su I soliti sospetti, ammantata di un'aura 'demoniaca' che ne sottolinea l'ambiguità ontologica, la condizione di creatura sospesa fra l'umanità e il mito. Keyser Söze è il nome sillabato con voce strozzata da Arkosh Kovash, gangster ungherese che giace in un letto d'ospedale con il volto ricoperto di ustioni; è il boss senza volto a cui fa da portavoce il mefistofelico avvocato Kobayashi (Pete Postlethwaite); è l'oggetto di un aneddoto (o piuttosto un'origin story) talmente atroce da sconfinare nella leggenda; è la sagoma scura osservata in lontananza da Kint nell'ultimo flashback della sua confessione.
La natura onnipotente e 'incorporea' di Söze, entità maligna più volte paragonata al diavolo, risulta opposta a quella di Kint, fallato nel corpo e nella mente: la sua paralisi cerebrale lo rende storpio e gli ha paralizzato gli indici, mentre il carattere debole lo induce ad affidarsi al carismatico Dean Keaton di Gabriel Byrne e in qualche modo a esserne succube. È il principale "gioco di specchi" di un film che, dietro gli stilemi del crime drama, si rivela soprattutto questo: un vertiginoso labirinto imperniato sulla forza immaginifica del cinema, sull'arte del racconto come supremo inganno al quale abbandonarsi e da cui trarre il piacere di farsi sorprendere. E voler tornare in quel labirinto perfino dopo che l'inganno è stato svelato, riprendere la caccia a Keyser Söze pur sapendo che il diavolo "come niente... sparisce", è il più grande trionfo di un film magnifico da cui ancora non abbiamo smesso di farci beffare a ogni visione.
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