Per il suo primo lungometraggio di finzione I pionieri, presentato fuori concorso nella sezione Favolacce al 40° Torino Film Festival e distribuito da Fandango, Luca Scivoletto, ha contribuito anche alla colonna sonora, insieme ad Alessandro "Asso" Stefana. Un racconto di formazione, ambientato nell'estate del 1990 che è stato ancor prima libro, edito da Fandango libri e poi soggetto.
Storia di un'amicizia, quella tra due ragazzini di undici anni che in comune hanno delle famiglie, devote e costruite negli ideali e nel vero e proprio credo del Partito comunista italiano. Renato ed Enrico, costretti ad una vita senza religione, Reebok, Rambo e Nintendo perché loro "non sono come gli altri", decidono di ribellarsi all'idea di un'altra estate ligia al dovere ed all'attivismo e scappano, in cerca di un'avventura "normale".
Al Torino Film Festival, Luca Scivoletto porta il suo personale Stand by me, tra ispirazione autobiografica e possibilità di riflessione sulla difficoltà intrinseca all'essere umano, riuscire ad appartenere al gruppo ed essere unico allo stesso tempo. Binomio profondamente arduo da mettere in pratica. Abbiamo incontrato il regista per farci raccontare tutto sulla genesi di questo film personale e universale, riflessivo, leggero ed anche un po' politico.
Autobiografia di un'amicizia
Spunto autobiografico per un film che prende poi una direzione diversa?
Sì, lo spunto è autobiografico perché effettivamente ho avuto dei genitori comunisti, ma interni al partito, dei veri propri funzionari. Visto che il partito comunista è una specie di Stato nello Stato, mi sono chiesto queste famiglie cosa avessero di particolare rispetto agli altri non comunisti. Questo lo spunto. Dopodiché l'idea era poi raccontare tutta un'altra cosa. Da una parte era mia volontà quella di non fare dell'autobiografia anche perché il comunismo è durato solo quegli anni della mia infanzia e dall'altra c'è anche l'idea di coinvolgere altri autori Eleonora Cimpanelli e Pierpaolo Pirone, lontani da quell'esperienza anche per generazioni e togliere il rischio di andare su un racconto puramente autobiografico che non mi interessava. Volevo raccontare il sogno che avevo io da bambino, vivere quell'utopia con cui ero stato educato, quella rivoluzione immaginata fino agli otto anni che poi è stata messa da parte con senso di frustrazione. L'idea di realizzare un'utopia nonostante la storia, nonostante tutto, quindi volendo, può essere autobiografico anche ciò che non ho vissuto ma ciò che ho desiderato, che ho sognato, quindi comunque rimaniamo sempre da quelle parti.
Nei Pionieri c'è l'amicizia che è tema universale e ci sono due ragazzi che devono confrontarsi con dei genitori che li vorrebbero già indipendenti dal pensiero di massa, in un periodo dove invece magari si vuole ancora essere uguali agli altri.
Uno degli aspetti da cui siamo partiti a ragionare scrivere e realizzare questo film, oltre al libro, era proprio quell'età lì, gli 11 -12 anni, l'inizio, non solo della primissima adolescenza ma anche di quella parte della vita in cui cominci a dire "io sono come gli altri però voglio essere anche me stesso". Già questo vale per tutti gli esseri umani ma se poi, oltretutto, vieni da una tradizione familiare in cui è auspicabile che tu segua delle regole di comportamento diverse strutturalmente dagli altri, allora l'interrogativo si pone con ancora più forza perché non è soltanto essere come gli altri ma è anche tradire i principi che ti hanno educato. È un momento della vita in cui devi fare veramente delle scelte molto forti.
Il tema del film è la crescita e dall'altra parte c'è questo sfondo della fine di un'epoca, questo racconto collocato in un momento storico preciso. Il crescere ho voluto cercare di raccontarlo sotto vari aspetti, l'amicizia, che ne è di un'amicizia quando si cresce,che ne è dei rapporti con la propria famiglia quando si cresce. Qui chiaramente giocherà un ruolo interessante, anche per quanto riguarda lo sfondo, la fine del comunismo perché ci sono due aspetti, due reazioni opposte di questi due ragazzini a questo evento storico. Per uno è un po' un basta che mi diverto e per l'altro invece c'è proprio una sofferenza, una incapacità di accettare la realtà e di distaccarsi da questa eredità familiare che poi per Renato significa anche fare i conti con la sofferenza, il dolore e diventare certamente adulti.
Stand by Me e la Juve
È questo il tuo Stand by me?
Sì probabilmente sì. Ovviamente quello è un film che mi ha segnato moltissimo come tutti i film americani. Sono di una generazione per cui i film americani anni '80 ci hanno formato. Se pensiamo al racconto di Stephen King considerando anche il romanzo che ho scritto dallo stesso titolo del film, è un ritorno a quella memoria lì di quell'età ibrida in cui sei metà bambino e metà ragazzino, in cui appunto ti stai trasformando. Potrebbe essere un po' una sorta di Stand by me perché racconta un momento magico, si stanno trasformando delle cose. Per un attimo, l'essere umano, in questo caso il ragazzino, prende una forma che dura pochissimo e che non ci sarà più e scopo del film è di fissarla. Non c'è solo Enrico che magari richiama più a quello che ho vissuto io ma tutti e quattro i ragazzini.
Come sei riuscito a connetterti con quel periodo della tua vita e allo stesso tempo a dirigere degli attori così giovani su quel tipo di sentimenti?
Ho quarant'anni ma una parte di me è legata a quel periodo e si ricorda bene tutto. Credo che in questo sia stato molto utile scrivere il romanzo prima. Il fatto che io sia passato da un soggetto ad una forma estrema di trattamento che è scrivere un romanzo e poi il film credo mi abbia riconnesso con i pensieri dei ragazzini diciamo e tutto sommato è stato un lavoro non troppo complesso. Con i ragazzi chiaramente è stato diverso però tutti e quattro hanno studiato molto, erano molto preparati, avevano letto il romanzo Preparavamo le scene, erano molto attenti, facevano molte domande ed erano molto reattivi e da parte loro c'è stata una tale curiosità che poi non mi è stato poi così complicato spiegare il contesto in cui vivevano. Chiaramente poi ci sono dei limiti nel poter spiegare la questione del partito comunista e lì abbiamo lavorato di metafore un po' più concrete. Mi ricordo che con Francesco Cilia che ha interpretato Renato, abbiamo usato la metafora del calcio e gli abbiamo detto di immaginare come se la Juve scomparisse.