I miei vicini Yamada del 1999 è forse la pellicola che, tra tutte quelle ideate da Isao Takahata sotto il nome dello Studio Ghibli, ci permette di capire la differenza della sua poetica rispetto a quella di Hayao Miyazaki, così come anche il loro modo quasi agli antipodi di vivere l'attività di uno studio produttivo così importante. Delle differenze che forse hanno fatto la fortuna dei due autori e probabilmente pure del Ghibli nella sua interezza.
Basti pensare al fatto che il film di Takahata che ci interessa qui è un titolo totalmente opposto rispetto al precedente arrivato appena due anni prima, ovvero uno dei lungometraggi più importanti della filmografia miyazakiana. Laddove infatti Princess Mononoke è un kolossal d'animazione dalla portata enorme, essendo un testo audiovisivo muscolare, imponente e da interessi aziendali di prima fascia; I miei vicini Yamada è invece un film piccolo, dalle modeste ambizioni commerciali e che di primo acchito sembra solamente una tappa di ripartenza per Takahata, il quale, dopo l'esperienza molto impegnativa di Pom Poko, aveva forse deciso di ricominciare a sperimentare occupandosi di ciò che gli sta a cuore.
La pellicola, che non a caso non è stata un gran successo al box office, torna ad occuparsi dell'importanza delle piccole cose quando sono viste da vicino, creando una storia apparentemente frammentata di una famiglia, organizzata secondo episodi di vita quotidiana e preoccupandosi soprattutto del lavoro sulla tecnica, riprendendo quella ricerca che usava mescolare realtà e immaginazione. Un lavoro intimo, delicato, quasi modesto, eppure dentro ha tutta la poetica di Takahata, oltre a contenere praticamente i prodromi per l'immediato futuro.
Le famiglia Yamada
L'idea alla base del film è quella di raccontare la vita quotidiana parlando però sempre di altro, dalla stringente realtà sociale giapponese alla voglia di ogni membro della famiglia di uscire dal proprio lui prefigurato e di vivere secondo le stagioni della vita (ancora un ponte tra il cinema tradizionale nipponico di Yasujirō Ozu e la poetica di Isao Takahata) in modo più libero e istintivo.
Il lavoro narrativo de I miei vicini Yamada punta allora tutto sulla sua struttura, che è divisa in piccole parabole raccolte in scatole tematiche concluse ogni volta con un haiku significativo, in modo che esso ne possa guidare il senso singolare e gli conferisca un motivo d'esistere in rapporto con le altre sequenze. La linea è quasi subito doppia, perché si parte dal punto di vista della piccola della famiglia, Nonoro, che praticamente disegna la sua famiglia con un tratto essenziale, tipico del mondo dell'infanzia, e si chiude con una canzone, Que Sera, Sera, cantata invece in modo collettivo.
Dalla fantasia del singolo si passa progressivamente ad un'armonia e un senso di comunità, in cui tutti quanti i componenti familiari trovano finalmente il modo di accordarsi secondo il proprio essere, fatto di necessità, voglie e paure. Questo ne fa una pellicola che dal punto di vista contenutistico regala una complessità che si contrappone al minimalismo strutturale con la quale è presentata, regalando uno spiraglio significativo per guardare all'interno del mondo del geniale autore che l'ha partorita.
La sperimentazione sul linguaggio di Takahata
Quello che però ruba l'occhio e il cuore ne I miei vicini Yamada è senza dubbio il discorso linguistico. Takahata, partendo dal manga Nono-chan di Hisaichi Ishii, sperimenta sul tratto, sulla messa in scena e sulle forme, seminando ciò che sboccerà definitivamente con il suo ultimo leggendario film, La Storia della Principessa Splendente, di cui si trova anche un riferimento diretto nel momento della nascita di Nonoro.
Il Maestro dà fondo alla sua ricerca sulle potenzialità dell'animazione cercando di restituire all'esperienza dello spettatore il tratto tradizionale pur lavorando sempre in digitale, quindi sfumando tutto ciò che in background rispetto ai suoi protagonisti, i quali abbandonando le forme realistiche per approdare ad una realizzazione essenziale. I personaggi del film diventano archetipi visivi, esasperando quel paradosso sopracitato: la semplicità del design rafforza il contrasto alla quasi sovrabbondanza di stimoli, riferimenti e significati che compongono il bagaglio di ognuno di loro.
L'arte sovrasta il realismo sfruttandone però i pregi e, dunque, ottenendo il difficile risultato di trasfigurare il quotidiano, rendendolo dinamico e frizzante come non sarebbe stato possibile fare se il tratto lo avesse invece esaltato. I miei vicini Yamada acquisisce così una valenza incredibile dal punto di vista del lavoro sul mezzo cinematografico, permettendosi anche delle sortite nelle quali l'ideazione visiva si stacca dal canovaccio generale, regalando dei momenti d'animazione veramente straordinari.