Io considero i miei film in primo luogo come drammi su individui alle prese con conflitti interiori e considero me stesso un drammaturgo prima ancora che un cineasta politico. Sono interessato a punti di vista alternativi. Sono convinto che in definitiva i problemi del pianeta siano universali e che il nazionalismo sia una forza molto distruttiva.
Un uomo come Oliver Stone il prezzo del nazionalismo lo ha scontato sulla propria pelle: lui, come tantissimi altri americani della sua generazione che, negli anni Sessanta, è stato spedito in Vietnam a combattere una guerra incomprensibile. E Stone, nato a New York da padre statunitense e madre francese e cresciuto durante il periodo del maccartismo e della Guerra Fredda, nutrito a pane e retorica anticomunista (suo padre era un repubblicano convinto), nell'illusione del nazionalismo ci aveva creduto sul serio: al punto da arruolarsi, a soli vent'anni, e partire per il Vietnam.
In quattro anni di servizio militare, Oliver Stone ha conosciuto l'inferno - quell'inferno in terra che in seguito avrebbe raccontato nei suoi due film più celebri - e per sua fortuna è tornato indietro, a differenza di migliaia di suoi coetanei. La guerra del Vietnam, pagina cruciale per la fatidica "perdita dell'innocenza" degli Stati Uniti, ha segnato lui così come tantissimi altri, soldati e non; e per Oliver Stone ha rappresentato una presa di coscienza che, da allora, lo avrebbe portato a mettere in discussione tutti i valori con i quali era stato educato, e a porsi quelle domande che il suo cinema avrebbe poi rilanciato con la forza dirompente di durissimi atti d'accusa.
Natural Born Filmmaker
Nel 1971, subito dopo il congedo dall'esercito, Stone inizia infatti a frequentare una scuola di cinema alla New York University, ricostruendo la sua scioccante esperienza di soldato nel cortometraggio Last Year in Viet Nam. Il debutto da regista nel 1974 con l'horror low budget Seizure passa del tutto inosservato, ma in compenso le sue doti di scrittore gli fanno ottenere le attenzioni di Hollywood: nel 1978 firma il copione del dramma carcerario Fuga di mezzanotte per Alan Parker, aggiudicandosi il premio Oscar e il Golden Globe per la miglior sceneggiatura. Di lì a qualche anno, Stone comporrà gli script di cult movie del calibro di Conan il barbaro di John Milius (1982), Scarface di Brian De Palma (1983) e L'anno del dragone di Michael Cimino (1985). Quindi, nel 1986, il ritorno alla regia con Salvador e, a pochi mesi di distanza, la definitiva consacrazione con Platoon e il trionfo agli Oscar.
Per oltre un decennio, dal 1986 al 1999, Oliver Stone è stato uno dei registi più importanti d'America: quello che con maggior abilità ha saputo coniugare i richiami all'attualità e alla storia recente con una forza espressiva a dir poco notevole, le ragioni dell'arte con quelle del mercato, il favore della critica e dell'Academy (ha collezionato in tutto tre premi Oscar su undici nomination e cinque Golden Globe) con successi più o meno ampi al botteghino (con qualche occasionale fiasco, come Tra cielo e terra e U-Turn - Inversione di marcia). Già dalla fine degli anni Novanta, tuttavia, i consensi attorno alla sua opera cominciano a diradarsi e l'attesissimo ritorno nel 2004 con un progetto atipico e ambizioso, il kolossal storico Alexander, si rivela un mezzo passo falso e un pesantissimo tonfo commerciale.
I film più recenti, purtroppo, sembrano aver confermato la fase discendente di Oliver Stone, che ora a quattro anni di distanza dal thriller Le belve è in procinto di presentare il suo nuovo lavoro, Snowden, da domani nelle sale americane dopo la tiepida accoglienza al Festival di Toronto: una ricostruzione in chiave thriller della ben nota vicenda di Edward Snowden (già portata sullo schermo due anni fa con l'ottimo documentario Citizenfour), con Joseph Gordon-Levitt nel ruolo dell'uomo che denunciò le violazioni della privacy compiute dalla National Security Agency. Nel frattempo, oggi il cineasta più grintoso e 'arrabbiato' d'America compie settant'anni. E in attesa di vedere Snowden, nella speranza di ritrovarvi tracce del suo antico smalto, ripercorriamo i cinque film più apprezzati del "periodo d'oro" della carriera di Oliver Stone, analizzando il loro impatto su un'America costretta a prestare occhio e orecchio alla propria "coscienza sporca".
Leggi anche: Snowden: La prima immagine ufficiale di Joseph Gordon-Levitt
Apocalypse now (and then): Platoon
È il film che nel 1986 ha trasformato all'improvviso Oliver Stone, conosciuto fino ad allora prevalentemente come sceneggiatore, in una delle nuove voci più potenti del cinema a stelle e strisce. Girato nelle Filippine in meno di due mesi, con un budget modesto di sei milioni di dollari, Platoon ha costituito un progetto molto personale per Stone, che in questa pellicola ha voluto mettere in scena l'esperienza traumatica nella giungla vietnamita, descrivendo una guerra spogliata di ogni afflato epico e dipinta invece in tutta la sua scioccante brutalità. Adottando il punto di vista di Chris Taylor (Charlie Sheen), un giovane soldato che parte volontario per il Vietnam, Platoon non si tira indietro di fronte all'orrore, ma al contrario ci pone di fronte alla perdita di umanità dei personaggi, contrapposta agli sforzi di Chris nel mantenere il proprio senso morale. Accolto da un enorme successo (oltre trentacinque milioni di spettatori soltanto in Nord America), Platoon ha ricevuto quattro premi Oscar per miglior film, regia, montaggio e sonoro, tre Golden Globe e l'Orso d'Argento al Festival di Berlino 1987, ed è stato inserito nella classifica dei cento migliori film di sempre dell'American Film Institute.
I lupi e gli squali: Wall Street
"Non sono stato profetico: era già tutto intorno a noi. Il denaro era il sesso degli anni Ottanta". Nel 1987, appena un anno dopo l'affermazione con Platoon, Oliver Stone ha realizzato un altro classico del decennio scrivendo e dirigendo Wall Street; e se per Platoon il regista si era basato sulla propria esperienza in guerra, in questo film l'ispirazione per il soggetto arriva invece dal padre Lou, che aveva vissuto (e sofferto) il periodo della Grande Depressione lavorando come broker. Ci sono però anche richiami all'attualità, ovvero gli scandali sulla pratica dell'insider trading che avevano colpito Wall Street fra il 1985 e il 1986. Charlie Sheen ritorna come protagonista nella parte di Bud Fox, giovane e ambizioso broker neofita, mentre Michael Douglas domina la scena nel ruolo ormai iconico di Gordon Gekko, autentico squalo dell'alta finanza, il quale prenderà Bud sotto la propria ala, facendone il suo discepolo. Il cinismo e la spregiudicatezza di Gekko (che ripete il motto "Greed is good") e l'ossessione per il lusso e il denaro confluiscono in un affresco ferocissimo dello yuppismo imperante degli anni Ottanta, e in un'invettiva contro un sistema corrotto e socialmente ingiusto. All'epoca, Douglas si è aggiudicato l'Oscar come miglior attore grazie al personaggio che sarebbe tornato poi a interpretare nel 2010 in Wall Street: Il denaro non dorme mai: un sequel fiacco e deludente diretto sempre da Stone, una sbiadita fotocopia rispetto all'illustre capostipite.
Leggi anche: Top 50 Anni '80: i nostri film e momenti cult del cinema USA
I peggiori anni della nostra vita: Nato il quattro luglio
Secondo capitolo della sua "trilogia del Vietnam", iniziata nel 1986 con Platoon e portata a termine nel 1993 con il disastroso Fra cielo e terra, Nato il quattro luglio, uscito nelle sale nel 1989, sposta l'attenzione dalla guerra combattuta sul campo al "dopo": il trauma del ritorno a casa, l'amara disillusione e, in particolare, le difficoltà di ricostruire un'esistenza completamente mutata. Lo spunto, in questo caso, è stata l'autobiografia omonima pubblicata nel 1976 dal veterano Ron Kovic, che nel film ha il volto del divo cinematografico più amato dell'epoca, Tom Cruise, qui probabilmente nella migliore prova della sua carriera: quella di un ragazzo cresciuto in una famiglia tradizionalista e accecato dal mito di una patria da onorare ad ogni costo, tanto da decidere, appena compiuta la maggiore età, di arruolarsi nel corpo dei Marine e di partire per il Vietnam. Se le attinenze con la giovinezza di Oliver Stone sono palesi, la vicenda di Ron Kovic assume però una piega diversa: privato dell'uso delle gambe in seguito a una ferita sul campo, Kovic sperimenterà i terribili ostacoli del reinserimento nella vita civile, sarà costretto ad accettare il proprio handicap e, alla fine, sceglierà di battersi per la causa pacifista. Altro enorme successo nella carriera di Stone, Nato il quattro luglio si è guadagnato quattro Golden Globe e due premi Oscar per la regia e il montaggio.
Leggi anche: Fuori parte a chi? 10 famosi casting "sbagliati" che si sono rivelati perfetti
Ipotesi di complotto: JFK
Che nel 1991 Oliver Stone fosse considerato il più influente cineasta d'America risulta palese anche solo considerando un semplice dato: la capacità di trasformare un complesso dramma giudiziario di tre ore di durata (con venti minuti di sequenze inedite ripristinate nell'edizione in DVD), basato su una reale indagine a proposito dell'omicidio di John F. Kennedy, in un campione d'incassi da duecento milioni di dollari al box office mondiale (aggiornati ai prezzi di oggi, sarebbero almeno il doppio). Eppure JFK - Un caso ancora aperto, altra pietra miliare nella produzione di Stone, ha avuto un merito perfino maggiore: accendere, a più di un quarto di secolo di distanza dagli eventi, un serrato dibattito sui retroscena dell'assassinio del Presidente americano, tanto da condurre all'istituzione di una nuova commissione d'inchiesta che ha riaperto, di fatto, l'indagine sulla morte di Kennedy.
Nella pellicola Kevin Costner si cala nei panni di Jim Garrison, procuratore distrettuale di New Orleans che nel 1966, tre anni dopo la chiusura dell'inchiesta sull'omicidio di Kennedy, riavvia le indagini per mettere in luce le contraddizioni e i vari "punti oscuri" del rapporto stilato dalla Commissione Warren, sostenendo la tesi che Lee Harvey Oswald (Gary Oldman) non possa aver agito da solo, e che le responsabilità del delitto siano in realtà ben più estese e ramificate. Opera coraggiosa nei contenuti e rigorosa nella forma, con la tensione di un thriller senza però mai sminuire la densità della materia narrativa, JFK è un altro film che ha fatto scuola, ricompensato con il Golden Globe per la miglior regia e con due premi Oscar per la fotografia e il montaggio.
Leggi anche:
-
Omicidio Kennedy: 50 anni nella memoria cinematografica e televisiva
-
Kevin Costner al Festival di Roma: "Vi racconto il mio cinema di eroi"
Tutti gli uomini del Presidente: Nixon
Dai dubbi e le ambiguità attorno alla fine del Presidente americano più amato del secolo scorso alla parabola discendente del Presidente più odiato di sempre, uscito del tutto sconfitto dal confronto con la Storia. Nel 1995, un anno dopo il frastornante e 'tarantiniano' Natural Born Killers (Gran Premio della Giuria al Festival di Venezia), Oliver Stone ha scolpito il ritratto di Richard Nixon ne Gli intrighi del potere - Nixon: una tenebrosa cronaca dell'ascesa e della caduta del famigerato Presidente in cui alla linearità cronologica si sostituisce un meccanismo narrativo a incastro, costruito tramite flashback e salti temporali. Un magistrale Anthony Hopkins, candidato all'Oscar, restituisce le ossessioni, l'autoritarismo e il senso di solitudine di questo cupo antieroe in procinto di essere abbattuto dallo scandalo Watergate, e attorno al quale ruota una vasta galleria di personaggi: la First Lady Pat (una bravissima Joan Allen), la severa madre Hannah (Mary Steenburgen), il Capo di Gabinetto H.R. Haldeman (James Woods), il Segretario di Stato Henry Kissinger (Paul Sorvino) e il direttore dell'FBI J. Edgar Hoover (Bob Hoskins). A dispetto del fiasco commerciale, Nixon rimane una delle opere più ammirevoli nella produzione del regista, nonché, ad oggi, l'ultimo grande film della sua carriera.