I kitchen drama sono una delle pietanza più appetitose del momento. The Menu di Mark Mylod, Boiling Point di Philip Barantini o la superlativa The Bear su Disney+. Tra cinema e serialità, i thriller drammatici di stampo culinario hanno saputo imporsi con decisione nel panorama dell'intrattenimento di qualità tra grande e piccolo schermo, ritagliandosi un posto importante nel mercato cinematografico e televisivo contemporaneo. Tra sofisticati meccanismi psicologici e uno storytelling realistico delle soffocanti dinamiche interne a cucine stellate o fast food di seconda categoria, con imperanti gerarchie da rispettare e brigate da tenere a bada, soprattutto negli ultimi tre anni il sotto-genere ha trovato una sua precisa dimensione quasi idilliaca, tanto da cominciare ad essere copiata anche fuori dagli orizzonti hollywoodiani e occidentali. Dalla thailandia e grazie a Netflix arriva così Hunger del regista di culto Sitisiri Mongkolsiri, che pesca direttamente dalla formula americana o inglese per impalcare un dramma ai fornelli dove tensione e lotta sociale si alternano attivamente in un film forse non del tutto originale e ispirato ma valido nelle sue argomentazioni scaldate a fiamma vivace. Ne parliamo oggi nella nostra recensione, ricordandovi che il titolo è già disponibile in streaming per la visione.
Fame di successo
Hunger racconta la storia di Aoy. Figlia maggiore di una famiglia non benestante e proprietaria di un piccolo ristorante di noodles, la ragazza non ha mai potuto scegliere chi diventare. La sorella minore può studiare grazie ai suoi sacrifici e a quelli del padre, mentre il terzo fratello dedica il suo tempo a creare contenuti social si scarso successo. Aoy passa la sua vita a lavorare e davanti ai fornelli, con un wok alla mano e un talento grezzo da affinare, soprattutto capace di gestire il fuoco con capacità da vera chef. Un giorno compare al suo ristorante Tone, sous-chef del famoso e stimato chef Paul, anche noto come "il cuoco delle star" e titolare di Hunger, società di cooking service a domicilio per personaggi ricchi e facoltosi. Rappresenta la vera icona culinaria della Thailandia e a quanto pare sta cercando un nuovo cuoco. Sorpreso dalle capacità di Aoy, Tone la invita a provare a conquistare il posto nella cucina di chef Paul, uomo austero e misterioso, totalmente dedito alla sua arte e ai suoi clienti. La ragazza riesce a convincerlo e ad ottenere il lavoro, ma da lì in poi comincia per lei un percorso di cambiamento ed evoluzione che la porta a scoprire un mondo più grande e persino feroce di quanto potesse immaginare, dove l'approvazione degli altri sembra essere il traguardo più importante da raggiungere, sottomettendo l'accettazione di sé all'apparenza e alla fame di successo. In una continua sfida psicologica contro il pensiero diamantino di Paul, Aoy dovrà scegliere se dare importanza alla passione per la cucina o all'ossessione per la stessa e per la fama, provando a cambiare per la sempre la propria esistenza.
The Menu, il Quarto Potere di Mark Mylod
L'appetito come metafora
Dice chef Paul: "I veri vincitori sono sempre quelli che hanno più fame". Per lui il cibo non è dimostrazione d'amore o di passione, ma rappresentazione diretta di uno status sociale. Chi è in basso magia per sfamarsi (ed è un concetto cha chiarifica anche il fratello di Aoy) e chi ha sempre lo stomaco pieno mangia per ostentazione, dando fondo a un appetito diverso, che è quello per l'approvazione. In questo senso Hunger affonda le proprie radici critiche nelle grandi disparità sociali che ammorbano i paesi orientali, non diversamente da quanto vinto ad esempio in Parasite o Squid Game, per citare due prodotti mainstream e conosciuti. La lotta di classe è un tema sempre vivo in queste produzioni di genere, ma nel film di Mongkolsiri si ragiona su di un aspetto laterale dell'argomento, tentando di mettere a confronto due modi diversi di concepire la ricchezza.
Paul è un animale sociale in grado di percepire, comprendere e rispondere alle richieste dei suoi clienti, che in linea di massima non desiderano il suo cibo ma proprio lui, la sua presenza, il fatto stesso di poterselo permettere. Quando dice che "il caviale sa di merda" scopre un punto focale: si è tendenzialmente quel che si mangia, ma soprattutto qualcosa è costoso perché è speciale o è speciale perché è costoso? Aoy tenta di comprendere la natura del pensiero di Paul ma "puzza ancora del suo chioschetto di noodles" - come la rimprovera lo chef -, che però rappresenta la sua essenza, la sua natura, non per forza da rifuggire. Non è forse vero che spesso semplicità significa specialità? Nonostante Paul ritenga che non si possa battere una convinzione radicata, e nello specifico che lui sia il migliore, alla fine sono le azioni che contano e la capacità di prendere decisioni secondo etica e istinto, andando oltre il solo appetito per la fama e l'appagamento del desiderio e ricordando semplicemente chi si vuole essere.
Hunger è un titolo che non riserva grosse sorprese e non è costruito per imitare una struttura thriller come The Menu o inventare qualcosa di nuovo nel genere. In questo senso non risulta ispiratissimo ma sa raggiungere una certa efficacia d'intenti nel leitmotive della psicologia del conflitto sociale, mettendo in scena uno scontro attivo tra due protagonisti agli antipodi ma con la stessa determinazione. Ottime le performance degli interpreti di Aoy e Paul e anche la sequenza del banchetto finale, così come una regia composta e a tratti raffinata di Mongkolsiri. Si perde forse in un paio di lungaggini emotive che non hanno peso e misura adeguati ai fini della narrazione, ma nel complesso della scrittura, dell'estetica e della tecnica Hunger è un discreto kitchen drama thai che merita visione.
Conclusioni
In conclusione, Hunger si rivela un discreto dramma ai fornelli di stampo orientale, dove le formule riproposte sono quelle hollywoodiane o più in generali di produzione occidentale ma tematiche e stile hanno forma a intenzioni specifiche. Un soft-thriller culinario forte di ottime interpretazioni che risulta forse poco ispirato e tutto sommato prevedibile, ma che sa centrare l'obiettivo concettuale e creare la giusta tensione drammatica dove e quando serve.
Perché ci piace
- La regia di Mongkolsiri, raffinata e dedita alla storia.
- Le interpretazioni di Paul e Aoy che sorreggono l'intero film.
- Il conflitto di classe a tavola si conferma argomento efficace.
- Il banchetto finale.
Cosa non va
- È totalmente privo d'originalità ispirazionale.
- Molti elementi narrativi lasciano il tempo che trovano.
- Per ciò che vuole dire e per come lo dice, il film e forse fin troppo diluito nella sua durata.