Artista visivo, scultore, designer, attivista politico, blogger, il vulcanico Ai Weiwei è da sempre sensibile alle questioni che riguardano i diritti civili. L'attenzione dell'artista alla contemporaneità è tale da sentire il bisogno di raccontare lui, esule costretto a lasciare la Cina per le sue idee politiche radicali, il fenomeno delle migrazioni. Ai Weiwei racconta i migranti e lo fa alla sua maniera, non limitandosi a un unico aspetto, ma fornendo uno sguardo globale sulla questione. Human Flow è il titolo del documentario fiume di due ore e venti in cui l'autore si sposta in varie aree del mondo "calde", dalla Grecia al Sud Italia, dall'Iraq al Pakistan, dal Myanmar fino al confine tra Messico e Stati Uniti. Human Flow, flusso di uomini, ma anche di immagini che si succedono senza soluzione di continuità penetrando nei campi profughi, nei deserti, sui barconi, nel cuore dei conflitti che hanno spinto migliaia di persone ad abbandonare il proprio paese per sfuggire ai bombardamenti, alla miseria, alla repressione.
A inaugurare Human Flow è l'immagine di un'immensa distesa d'acqua. Il mare, veicolo primario di transito per i migranti, rappresenta il filo conduttore del viaggio che il regista compie scegliendo angoli di mondo significativi per comporre il discorso che gli sta a cuore. Il film è ricco di accenni alle questioni politiche, sociali ed economiche che stanno dietro alle migrazioni e spostandosi da un luogo a un altro, il regista mostra spaccati di realtà drammatiche, talvolta simili talvolta antitetiche, ma questi accenni avvengono in maniera rapida, a tratti superficiale. Ad Ai Weiwei non interessa confezionare un pamphlet storico-didattico, bensì descrivere cosa si prova a vivere la condizione di migrante e il suo afflato umanista è l'ingrediente più prezioso del suo lavoro.
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Tra poesia e disperazione
In Human Flow le interviste a profughi, uomini, donne, bambini, ma anche di uomini politici e membri delle OGN si fondono a immagini di grande bellezza. La dimensione artistica e quella politico-umanistica trovano un equilibrio perfetto. Il fascino delle immagini aeree catturate dai droni, delle ricercate composizioni naturalistiche e degli splendidi ritratti non indebolisce l'impatto del contenuto che ha il pregio di descrivere la drammaticità della vita dei migranti, soprattutto di quelli bloccati nei campi profughi, senza mai indulgere nel pietismo. Merito dello humor che pervade l'arte di Ai Weiwei. Il regista sceglie di essere molto presente nel documentario e appare nei contesti più disparati, intento a dare una mano alla troupe o a distribuire cibo e abiti ai migranti. In una delle sequenze più perturbanti Ai Wiewei interrompe un'intervista per via del malessere della sua interlocutrice, ma lascia il girato nel film; stessa cosa accade nella parte ambientata al confine col Messico quando l'intervento di un agente di polizia venuto a controllare l'operato della troupe viene riproposto integralmente.
Ai Weiwei sente l'urgenza di parlare di migranti in termini immediati e diretti, così decide di accompagnare le immagini del suo film con dati, statistiche, ricostruzioni storiche e dichiarazioni di esponenti politici. Human Flow prende il via sulle coste dell'Isola greca di Lesbo, uno dei primi approdi dei migranti siriani, ma esplora anche la Giungla di Calais, campo profughi tristemente noto per via delle terribili condizioni di vita smantellato nel 2016. Il film non si limita ad affrontare le questioni calde che riguardano l'Europa, come la scelta di molti paesi dell'Unione di chiudere le frontiere ai migranti, processo iniziato nel 2015. Nella sua lunga digressione c'è spazio anche per una sortita in Myanmar, dove la minoranza musulmana subisce una vera e propria pulizia etnica che ha spinto i superstiti a cercare rifugio altrove. Istruttivo il passaggio ambientato a Berlino, dove Ai Weiwei ha il suo atelier, in cui viene messa in mostra la macchina dell'accoglienza teutonica che ha approntato alloggi funzionali per i rifugiati nel vecchio aeroporto di Tempelhof.
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Un viaggio intorno al mondo per descrivere la barbarie che ci accomuna
Human Flow scorre tra immagini di indimenticabile bellezza fotografica e dolorose sequenze documentarie. A tratti il ritmo lento rischia di mettere alla prova l'attenzione dello spettatore dal dramma dei migranti, fiaccando l'intensità della denuncia, ma lo sguardo insistito sui volti e sui corpi dei profughi contribuisce a farci toccare con mano l'entità della tragedia. Alcune sequenze, come la telecamera che accarezza dall'alto i giubbotti salvagente che vanno a formare un mare arancione o il cadavere di un bambino che giace nel deserto, perfettamente fotografato, possono risultare perturbanti. D'altronde la personalità artistica di Ai Weiwei è talmente forte da spingere il regista a farsi corpo-oggetto, veicolo di narrazione, l'esatto opposto dell'autore invisibile privilegiato dal genere.
Più che un documentario vero e proprio, Human Flow si configura come una trasposizione lirica dell'attualità in cui il messaggio politico degrada in quello poetico. La bellezza cambierà il mondo. Ai Weiwei sembra credere a questo assunto e pervade con la sua presenza ingombrante un lavoro che aspira a raccontare una tragedia della contemporaneità attraverso un mosaico di lirismo. D'altronde il suo aver esperito personalmente l'onta del carcere e il dramma dell'esilio lo rende narratore ideale di questo dramma, umano tra gli umani. La sua onnipresenza vuole farci riflettere sull'universalità della condizione di migranti: negare ad altri i basilari diritti umani e la possibilità di mutare esistenza significa negarli a se stessi.
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3.0/5