Se chiedete a Bill Clinton cosa ne pensa di House of Cards, vi risponderà che è fedele alla realtà al 99% - e se lo dice uno che è stato Presidente degli Stati Uniti per otto anni, c'è da crederci. Chi meglio di lui può conoscere gli intrighi e i sotterfugi che si diramano nei corridoi della Casa Bianca? La crudeltà di Frank Underwood di certo non trova un corrispettivo nella realtà, ma i sistemi di voto, le oscillazioni politiche in vista delle elezioni, le ripetute crisi internazionali raccolgono a piene mani dagli eventi più recenti della storia americana. Nella quarta stagione di House of Cards questa tendenza si è trasformata in un vero e proprio omaggio continuo ad un periodo che ha definito la storia contemporanea, ovvero il ventennio che va dagli anni '60 agli anni '80.
Dal passaggio di potere da Johnson a Kennedy fino ad arrivare alla crisi del petrolio del '73, le vicende di House of Cards attualizzano la realtà americana fondando le proprie radici su ciò che ne ha definito l'identità attuale. Ad ammetterlo è lo stesso Beau Willimon, l'uomo dietro la sceneggiatura della serie, che ha raccontato dei parallelismi tra il personaggio di Kevin Spacey, Frank Underwood, e il trentaseiesimo Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson. In carica dal 1961 al 1967, Johnson non ha in comune con Underwood solo la provenienza (entrambi uomini del sud), ma anche il modo in cui è salito al potere: democratico del Texas, provò a concorrere per la Presidenza nel 1960 e nonostante non venne scelto fu inserito nel ticket di John F. Kennedy come vicepresidente, per assicurare i voti degli stati meridionali. Pur non incontrando i favori di John e del fratello Robert, prestò giuramento come Vicepresidente nel 1961 per poi ritrovarsi solo due anni dopo sulla poltrona dello studio ovale, in sostituzione dell'appena assassinato Kennedy.
Una storia che racconta se stessa
Quella tra Johnson e Underwood non è però l'unica licenza storica che la narrazione di House of Cards si è permessa: lasciando da parte i personaggi, possiamo facilmente riscontrare altri parallelismi che partono dallo stesso Johnson e si espandono a macchia d'olio intorno al personaggio di Kevin Spacey, soprattutto nella quarta stagione che, più di tutte, sembra lasciare in secondo piano le vicende personali dei due protagonisti, inserendoli al contrario in un contesto storico più marcato. Frank ormai è presidente, ha una nazione da governare e un mondo a cui rispondere che non si riduce più alla moglie Claire (Robin Wright) e ai membri del gabinetto, ma si espande dall'Europa fino alla Russia e al presidente Petrov che, infastidito dalla politica degli USA, decide improvvisamente di aumentare il prezzo del petrolio.
Lunghe inquadrature mostrano persone in fila alle stazioni di benzina, clacson che suonano, strade nel caos. "Benzina significa poter fare la spesa, significa andare al lavoro, significa Disneyland con la famiglia. Senza benzina si può facilmente arrivare alla guerra civile" spiega un analista allo staff di Underwood. E chi ha vissuto negli anni '70 sa bene che quelle non sono solo scene di una serie TV, ma sono pagine di una storia fin troppo recente. A decidere il rialzo dei prezzi non fu davvero la Russia, ma furono i paesi Arabi in risposta alla posizione degli Stati Uniti durante la guerra d'Israele, che nel 1973 diedero il via ad una vera e propria crisi petrolifera che si espanse a macchia d'olio toccando anche il vecchio continente. Fu la fine dei famosi trenta gloriosi, ovvero gli anni del boom economico, fronteggiati dal presidente Nixon: non sembra quindi un caso che Will Conway (Joel Kinnaman) parlando con Underwood pronunci la frase "se fossi repubblicano saresti il nuovo Nixon".
La Casa Bianca è un posto pericoloso
Di momenti in cui House of Cards ricorda la politica interna ed estera dell'America degli anni del boom economico ce ne sono molti nel corso delle varie stagioni, ma nella quarta il rapporto tra storiografia e finzione sembra essere ancora più stretto, legato a doppio filo da citazioni impossibili da non notare. e è la prova forse più evidente la sequenza dell'attentato al presidente Underwood, che rimanda immediatamente (e fin troppo facilmente) la memoria ad uno dei capitoli più difficili e allo stesso tempo più famosi della storia della Casa Bianca: l'assassinio di John F. Kennedy, avvenuto nel 1963 a Dallas, Texas. Colpi di pistola che risuonarono durante un corteo, colpi di pistola che risuonano adesso nel cortile di una scuola fino a colpire Frank Underwood, trasportato d'urgenza in ospedale e per giorni in fin di vita.
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Nonostante il paragone con Kennedy sia fin troppo facile però, bisogna andare un po' più a fondo nella storia americana per scoprire il vero corrispettivo reale, ovvero Ronald Reagan. Nel 1981 infatti il Presidente fu ferito da un'arma da fuoco mentre stava entrando in una limousine, ma riuscì a sopravvivere pur riportando gravi lesioni ad un polmone, proprio come il protagonista della serie che invece combatte contro i resti del suo fegato. Uno spettatore attento si renderà facilmente conto che è lo stesso Underwood ad omaggiare direttamente l'avvenimento, così simile al suo: in una sequenza della serie, si rivolge a due ritratti in un corridoio raffiguranti John Kennedy e Ronald Reagan. "Tutti e tre abbiamo subito attentati, ma so perché noi ridiamo", pronuncia in direzione di Reagan, "noi siamo sopravvissuti".
Minacce sempre più attuali
In House of Cards vengono chiamati ICO, Islamic Caliphate Organization; nonostante il nome sia diverso, è tuttavia impossibile non ricollegarli immediatamente all'ISIS, forse la più attuale delle minacce raccontate in questa quarta stagione di House of Cards. Esperti di Internet, organizzati, pronti a tutto per far prevalere la loro identità religiosa contro gli infedeli occidentali. I metodi sono gli stessi, purtroppo anche i più estremi - che portano House of Cards verso un finale che non può non rimandare agli attentati del tredici novembre 2015 a Parigi e alle successive azioni dell'ISIS in Africa.
Nella serie Ibrahim Halabi, intervistato al fianco di Frank Underwood, dichiara "Nel momento in cui l'intolleranza diventa una forma di patriottismo, l'America non è più America": un problema che ha indubbiamente toccato le politiche europee degli ultimi mesi, e che dimostra come House of Cards non sia altro che un nuovo modo di guardare noi stessi attraverso una lente più cinica, indubbiamente di finzione ma straordinariamente puntuale nel raccontarci la realtà. È probabilmente questo il più grande punto di forza della serie di Beau Willimon, ormai definibile con certezza come la punta di diamante della produzione Netflix.